Immaginiamo una città assediata dalle truppe napoleoniche, una difesa ormai allo stremo per l’evidente differenza delle forze in campo. Una capitolazione imminente e i nemici pronti al saccheggio. Nei giorni drammatici che precedono la resa, un filosofo della locale università sta scrivendo le ultime pagine di quella che ritiene, immodestamente, essere l’opera destinata a cambiare radicalmente il pensiero filosofico in Germania. In extremis e non senza apprensione consegna il manoscritto al corriere postale. Destinazione: una tipografia di Bamberga. La città poi conquistata è Jena, l’anno il 1806, per l’esattezza il mese di ottobre, il filosofo è Georg Wilhelm Friedrich Hegel. L’opera: La fenomenologia dello spirito.
A questa convulsa e rischiosa spedizione l’ancora relativamente giovane filosofo – era nato nel 1770 – non era forse preparato. Fino ad allora il suo interesse principale era stato di trovare una sistemazione dignitosa nel mondo accademico, dopo alcuni anni da precettore privato a Berna e a Francoforte; cercava un incarico che gli consentisse di dedicarsi con un minimo di agio e di serenità alla sua attività didattica e ai suoi studi. Le sue aspirazioni pratiche, tutto sommato inscritte in un orizzonte di medietà borghese, di cui Hegel non faceva mistero, collidevano tuttavia con una proposta teorica dichiaratamente rivoluzionaria – la logica dialettica – di cui Marx dirà che «nella sua forma razionale è scandalo e abominio perché, nella comprensione positiva della realtà così com’è, include nello stesso tempo la comprensione della sua negazione, del suo necessario tramonto (…) perché non si lascia impressionare da nulla ed è per essenza critica e rivoluzionaria».
Di Hegel e della sua vita hanno scritto in molti – tra i biografi più noti Kuno Fischer e Karl Rosenkranz – e anche le lettere di Hegel hanno conosciuto numerose edizioni. In Italia si ricorda, tra le altre, quella di Paolo Manganaro con prefazione di Eugenio Garin del 1972 da Laterza. La raccolta di recente pubblicazione presso Aragno (Lettere, pp. XXVI-240, euro 22,00) curata da Giuseppe Raciti, un esperto di lungo corso del pensiero e delle testimonianze autobiografiche di Hegel, riguarda il periodo giovanile tra il 1785 e il 1806. Si tratta in prevalenza di lettere scritte da Hegel, ma ne figurano anche di suoi interlocutori, tra questi Hölderlin, Schelling e Goethe. Il numero romano I, che compare sul frontespizio del volume, lascia presagire che ci sarà una continuazione. Ce lo auguriamo.
Appare evidente già da questa edizione l’interesse del curatore di individuare un certo numero di nuclei tematici in grado di offrire del filosofo di Stoccarda una testimonianza ad ampio spettro, in cui vita e pensiero si integrano tracciando una traiettoria tutta inserita nello Zeitgeist di quella borghesia tedesca che tra la fine del Settecento e l’inizio del XIX secolo stava assumendo piena consapevolezza del suo ruolo. La figura socialmente emergente in quegli anni è il Bildungsbürger, il borghese colto in cui lo Streben romantico, la tensione verso l’idea, che animava i protagonisti dei romanzi di formazione, si è convertita in ratio economica che non supera l’orizzonte del quotidiano.
Lo Hegel di queste lettere è un rivoluzionario del pensiero che sa perfettamente di esserlo e che si trova su una soglia epocale di cui è certo di possedere le chiavi filosofiche per poterla leggere. Con Schelling, l’enfant prodige di cinque anni più giovane, darà vita nel 1802 al «Kritisches Journal der Philosophie», dove appariranno alcuni degli scritti più importanti tra quelli che precedono la Fenomenologia dello spirito. In quegli anni toccò a Schelling il ruolo di battistrada: fu il primo della sua generazione ad avere un incarico all’Università di Jena, dove Fichte aveva insegnato dal 1794 al 1799 lasciando un’impronta indelebile. Hegel lo raggiungerà solo qualche anno dopo – si era abilitato nel 1801 – ma dovrà assistere al progressivo indebolimento di quella gloriosa università. Dopo Fichte sarà lo stesso Schelling a lasciare l’ateneo jenese per accettare un incarico a Würzburg: «Non è necessario che ti dica – gli scrive Hegel – quanto sia contento della tua assunzione, che si presenta sotto tutti i rispetti molto onorevole. Jena, tantis viris orba, ha accusato il colpo in modo straordinario; anche tra la gente comune si è avvertita la tua perdita come un fatto molto significativo, e anche quelli che non si dicono comuni parevano augurarsi di poter disporre nuovamente di te».
Di questi movimenti accademici e dei loro risvolti sul piano delle relazioni personali le lettere danno ampio conto, non trascurando le missive di argomento pratico, spesso relative agli sforzi di Hegel di assicurarsi una condizione economicamente dignitosa. Con tutte le attenzioni retoriche del caso, il 29 settembre 1804 chiederà un intervento in suo favore a Goethe stesso, di cui era nota l’influenza sulle istituzioni culturali del Granducato di Sassonia-Weimar-Eisenach e sulle decisioni accademiche che riguardavano Jena. Goethe aveva stima di Hegel, anche se ne biasimava lo stile espositivo contorto e le incertezze retoriche della dizione.
È sicuramente fuori degli schemi consueti, ma non per questo meno opportuna e interessante, la scelta del curatore di alternare lettere di contenuto filosofico e progettuale ad altre intrise di quotidianità e di contingenze materiali, ivi comprese ad esempio le missive ai fratelli Ramann, commercianti di vino a Erfurt, a cui Hegel ordina nella primavera del 1802 quantità non trascurabili di vino francese e ungherese. L’alternanza tra pensiero e quotidianità disegna una fisionomia intellettuale in cui l’intelligenza dello spirito non si sottrae alla cura del mondo. La dialettica, che Marx considerava lo strumento che «vede ogni forma divenuta nel divenire del moto», è fondamentalmente intelligenza del cambiamento, per cui non si dà una verità sciolta dai legami della contingenza. È dunque giunto il momento di superare, mediante la dialettica, le verità astratte, oggetto del «vecchio sistema» della filosofia a uso e consumo delle «teste meccaniche». Per la dialettica la verità non può che essere espressione di un tempo storico e la filosofia deve coglierla come tale se vuole essere adeguata al suo oggetto.
È significativo a questo riguardo quanto afferma Schelling in risposta a una lettera di Hegel (del 24 dicembre 1794), che risale agli anni di Berna, quando era precettore dei figli di un notabile della città. Hegel lodava l’amico per avere saputo «scansare di lato, un poco alla volta, il lievito stantio» della vecchia scuola teologica e Schelling risponde: «la sola cosa che continuava a interessarmi erano le ricerche storiche sull’antico e nuovo Testamento e sullo spirito dei primi secoli cristiani». Poi si chiede: «Chi vuole sotterrarsi nella polvere dell’antichità quando senza posa lo spirito del suo tempo lo avvolge e lo travolge seco? Vivo nella filosofia del presente e vi ruoto attorno. La filosofia non è ancora alla fine. Kant ha fornito i risultati; mancano ancora le premesse. E chi può capire i risultati senza premesse?».
Già, ma quali sono le premesse? Dalle lettere, in particolare da quelle a Schelling inviate da Berna nella seconda metà degli anni Novanta, traspare la consapevolezza piena di una missione da compiere: fare della filosofia il motore del cambiamento culturale. Il 16 aprile del 1795, in una missiva all’amico pervasa da una giovanile tensione utopica, si legge: «Verrà il capogiro al cospetto delle supreme attitudini attinte dalla filosofia, che permettono all’uomo tanta elevatezza; ma perché, dico, si è giunti così tardi a fissare più in alto la dignità dell’uomo, a riconoscere la sua facoltà di libertà, che lo pone sullo stesso piano di tutti gli spiriti? (…) Questa dignità la dimostrano i filosofi; i popoli impareranno a sentirla, non già invocando i loro diritti prostrati nella polvere, bensì tornando essi stessi ad accoglierli, a impossessarsene. Religione e politica hanno tramato sotto la stessa coltre; quella ha insegnato cosa voleva il dispotismo: disprezzo del genere umano, sua incapacità di attingere un bene purchessia, per essere qualcosa per proprio conto».
Fa la sua comparsa nel carteggio anche Hölderlin, il poeta filosofo, che viveva a Francoforte a metà degli anni Novanta del Settecento. Cresciuto intellettualmente con Hegel nello Stift di Tübingen, era profondamente legato al compagno di studi. Hölderlin non fa mistero del suo vivo interesse ad avere accanto Hegel e gli consiglia di accettare l’offerta di fare da precettore a due giovani «tra i nove e dieci anni» di una famiglia benestante di Francoforte, i signori Gogel: «Avrai tutto gratis, a parte, forse, il barbiere e altre cosette. A tavola berrai un vino del Reno molto buono oppure vino francese. Abiterai in una casa che è tra le più belle di Francoforte, situata in una delle zone più belle, il Roßmarkt».
Nelle lettere giovanili di Hegel e dei suoi sodali c’è tutto questo: rivoluzione filosofica, insegnamento, critica militante ma anche convivialità e Geselligkeit, la socievolezza degli spiriti colti, amanti del vino e nello stesso tempo impegnati a disegnare i contorni di una anatomia della critica che di lì in avanti segnerà per sempre il cammino della filosofia.