Storico, già docente a Ca’ Foscari, collaboratore di queste pagine, Piero Brunello è autore di alcuni fra i più importanti lavori sulla società italiana ottocentesca (ad esempio Ribelli, questuanti e banditi, 1981 poi Cierre 2011; Pionieri, Donzelli 1994; Storie di anarchici e di spie, Donzelli 2009; Colpi di scena, Cierre 2018). Da qualche mese l’editrice veronese Cierre ha dato alle stampe Dubbi sull’esistenza di Mestre (pp. 328, euro 18), una raccolta di «esercizi di storia urbana».

Il volume raccoglie quasi quarant’anni di impegno pubblico: è forse un consuntivo?
In parte è così, anche per l’età che mi riguarda. Ho chiuso il mio impegno con un’associazione di storia a cui questi scritti devono molto. Di recente sono mancati amici e amiche. Per me l’azione pubblica è un’estensione dei rapporti amicali, e quando vengono interrotti, ci si interroga sul senso stesso dell’azione pubblica. E poi, come cerco di spiegare nell’Introduzione, negli ultimi trent’anni molte cose sono cambiate. Ma tracciando un consuntivo, ho voluto anche riflettere su come gli esercizi di storia urbana a cui mi sono dedicato possano essere utili per comprendere i mutamenti in corso: su come per esempio la città privatizzata stia diventando la città della sorveglianza.

Perché dubitare dell’esistenza di Mestre?
Avevo intitolato così un discorso tenuto nel 1990. All’epoca, tra le città delle sue dimensioni Mestre era l’unica a non fare Comune, perché dagli anni ’20 del Novecento fa parte di quello di Venezia. Questa Mestre era l’esito dell’inurbamento dovuto al polo industriale di Marghera: duecentomila abitanti distribuiti in un territorio fatto di altri comuni inglobati in quello di Venezia e di numerose località rurali urbanizzate. Che percezione ne avevano gli abitanti? E come era analizzato e raccontato questo sviluppo? C’era lo sguardo della classica erudizione municipale, quello dal centro (e si sa che il centro non sta in mezzo ma sopra): Mestre sarebbe cresciuta su sé stessa attorno a un castello medievale, di cui resta una torre. Guardando a un ambito cittadino, volevo riflettere sul fatto che confini e appartenenze sono l’esito mai scontato di relazioni sociali, e della storia. Il modo più serio per affrontare il tema mi sembrò un divertissement.

Si sofferma a più riprese su alcune modalità presenti di uso della storia nel discorso pubblico…
I primi scritti raccolti in questo libro, che risalgono alla seconda metà degli anni Ottanta del Novecento, riflettono il clima di una storia locale critica, che portava con sé un’aria di freschezza. Dai primi anni Duemila la storia locale è stata confiscata dalla Regione Veneto che finanzia e promuove ricerche volte alla costruzione di una «identità veneta», assecondando una spinta proveniente da un altro modo di intendere la storia locale, che pensa di promuovere una «coesione delle comunità locali». Da allora la storia è divenuta una branca del marketing territoriale. Se devi vendere un formaggio o un paesaggio hai bisogno del marchio di tipicità: e a questo punto arrivano gli storici.

La storia «locale» insiste sui confini e sulle origini della città, immaginando uno sviluppo continuo fino all’approdo al «caos» novecentesco: trova convincente questa narrazione?
Ci sono vari modi di fare storia locale. Le storie di paese per esempio pensano a uno sviluppo continuo, per allargamenti progressivi a partire da un’origine più o meno mitica. Quanto all’uso dei termini «caos» e «disordine» urbano per descrivere Mestre nel secondo Novecento, è un’immagine molto diffusa specialmente al di fuori di Mestre, come testimonia la postfazione al libro che ha scritto Matteo Melchiorre, vedendo le cose da Feltre. Da parte mia, sotto l’apparente disordine ho sempre cercato di individuare regolarità, scelte politiche, gerarchie economiche, spaziali e sociali. Ho cercato, inoltre, il significato attribuito ai luoghi da parte di chi ci abita: in uno degli scritti parlo di Mestre come di un goniometro.
Parlare di Mestre implica una presa di posizione su industrializzazione e classe operaia, Marghera era oggetto di un intenso pendolarismo…
Fin dall’inizio il polo industriale di Porto Marghera impiega una manodopera che vive a un raggio di distanza che può essere percorso in bicicletta o lungo le linee ferroviarie regionali, formando così un’area metropolitana. Le politiche della mobilità innescano un conflitto sociale. In questo libro operai che vivono a Meolo, a una mezz’ora di treno da Porto Marghera, raccontano conflitti e battibecchi con capitreni e capistazione come microepisodi di lotta di classe. Lo fanno con tono picaresco (tirare il freno dell’allarme, giocare al gatto e al topo con il bigliettaio), un registro stilistico tipico della tradizione orale popolare.

Questi saggi sono stati scritti da un «indigeno» cresciuto fra «pionieri» nell’allora nuovo quartiere, il Villaggio San Marco, fuori della Mestre «storica», cosa implica?
I primi abitanti, tra cui la mia famiglia, ricordano che prima del loro arrivo «non c’era niente». Sono i racconti del «pioniere», costruiti nel modo umoristico tipico delle storie di frontiera. Le famiglie provenivano da Venezia, dalla campagna veneta, da altre regioni italiane. Era un quartiere operaio; le soluzioni edilizie erano state progettate sulla base del lavoro del capofamiglia. In realtà lo spazio sociale fu modificato dalla presenza e dalla mobilitazione delle donne (e dei giovani). Credo che questa esperienza mi abbia spinto a guardare non dal centro ma dai margini, non dall’alto ma dal basso, e a pensare allo spazio urbano in termini di processi di costruzione sociale, conflitto e negoziazione. Ma in questo c’è anche qualcosa di cittadino. Mestre è una città che non deve rendere conto delle proprie scelte e dei propri racconti al lustro e alla nobiltà del passato, a stemmi e a genealogie. Come ho detto, non è che a Mestre manchi la tradizione erudita municipale, ma il tratto di modernità che caratterizza la città, e che si avverte nella particolare socialità urbana, ha liberato la ricerca storica dal peso delle gerarchie precostituite.

Quell’«indigeno» è tuttora attivo in difesa del quartiere: a cosa servono le conoscenze di storico e gli strumenti etnografici?
Il quartiere di cui stiamo parlando rientrava nel piano Ina-Casa, fu progettato da un team di architetti sotto la guida di Giuseppe Samonà e Luigi Piccinato, mossi dall’idea che gli spazi urbani possano e debbano favorire le relazioni sociali. All’improvviso, nell’aprile 2021, la giunta comunale di Venezia delibera una variante urbanistica che consente la costruzione di un edificio di oltre settanta metri, con l’ennesimo centro commerciale, in un terreno destinato a verde attrezzato. Le mobilitazioni (si pensi oggi al caso della ex-Gkn a Campi Bisenzio) producono saperi. Nel nostro caso, la mobilitazione civica ha prodotto raccolte di interviste sulla storia del quartiere (alcune delle quali riprodotte nel libro), analisi del progetto urbanistico, discussioni sui processi di gentrificazione e sul futuro della città.

Accanto all’etnografia dell’andare-a-vedere, anche la letteratura sembra sia importante…
Negli anni Novanta ho diretto con Luca Pes la rivista Altrochemestre. Documentazione e storia del tempo presente, che aveva a cuore la qualità della scrittura, priva di sottintesi e di strizzatine d’occhio, attenta ai dettagli e consapevole dell’angolo di visuale in cui ci si situa. Tra i modelli di riferimento vorrei ricordare Gianni Celati, quando scrive: «Dove le parole fanno più luce vedi meno lontano». Celati aveva mostrato come bastasse uscire di casa per trovarsi in un pianeta sconosciuto, e aveva anche mostrato che per conoscerlo e descriverlo bisognasse rendere sconosciuti i contesti familiari. Una buona ricerca e una buona scrittura credo possano partire ancora da qui. Tra l’altro, da pochi mesi abbiamo rilanciato la testata online (https://altrochemestre.it/).

Contro gli usi pubblici da cui abbiamo preso le mosse quale può essere oggi una funzione critica del fare storia?
A lungo alla storia si è chiesto di formare «cittadini della nazione», oggi si declina questo compito parlando di «educazione civica». Fin troppi Stati lo fanno, ovviamente con tutte le differenze, molto rilevanti, che conosciamo. Ma perché lo chiedono agli storici? Quello che la storia può fare è garantire uno standard nel trattamento dei dati, costruendo attorno a questo uno spazio pubblico. La storia si propone di indagare su fatti documentati e mediati da testimonianze. In altre parole mantiene una tensione verso la verità: la funzione civile della storia la vedrei qui.