TEL AVIV – Dal divano giallo della casa di Etgar Keret, in compagnia del suo coniglio bianco, in questi due anni abbiamo visto scorrere la Storia. La strage del 7 ottobre seguita dall’incredulità e dal caos. La rabbia, il dolore e la voglia di vendetta. Le mobilitazioni delle piazze e la speranza. Le spaccature. La violenza crescente a Gaza. La guerra con l’Iran. «Che altro dobbiamo dirci?», scherza seduto di fronte a noi, sulla sua poltrona blu, il più sardonico fra gli autori israeliani. «Secondo me, abbiamo davvero detto tutto. Anzi, siamo anche diventati noiosi…».
«Perché qui non finisce mai. Quante volte abbiamo pensato di essere arrivati al capolinea? È sempre stata un’illusione».
«Vedremo. Io dico solo di non illudersi, perché troppe volte ci siamo stati vicini e non è successo niente. E perché questo è un piano ambizioso: non solo un cessate il fuoco, ma un percorso che rischia anche di portare a uno Stato palestinese. E Netanyahu questo non lo vuole: è un negoziatore riluttante che cambia le carte in tavola».
Ok. Mettiamo caso che finisse stanotte, che Paese ci troveremmo davanti domani mattina?
«Questa è una domanda difficile. Ci penso spesso e non ho risposte facili. Dapprima, suppongo, a un Paese sollevato: l’80 per cento degli israeliani non vuole questa guerra, ma anche il 99 per cento della gente di Gaza non la vuole, per non parlare del 100 per cento del mondo. Ma se davvero finisse, il futuro sarebbe tutto da vedere: un’indagine recente dice che il 30 per cento degli israeliani ha sintomi da stress post traumatico. Tradotto, vuol dire che in ogni famiglia c’è una persona con Ptsd. Ci sono due anni di rabbia e di frustrazione con cui fare i conti: gente che ha divorziato, gente che ha fatto cose orribili e se le porta dietro, gente che si è sentita tradita e abbandonata…».
Non proprio la Sparta che invoca il primo ministro…
«A Sparta i bambini che non erano considerati abili al combattimento venivano uccisi. Un’idea orrenda, in particolare se a proporla sono degli ebrei…».
E allora?
«Allora fatico a rispondere. Siamo su un bus nella foresta in fiamme. A guidarlo c’è Netanyahu che continua a dirci che ci sta portando fuori dal fuoco. Ma dal finestrino lancia benzina e quindi fa allargare le fiamme».
Ci sono anche i palestinesi nel bus?
«Decida lei. Io le dico che prima del 7 ottobre c’era, anche se in sottofondo, una narrazione che diceva che prima o poi una soluzione con i palestinesi andava trovata, anche se lontana nel tempo, perché era chiaro che non eravamo pronti né noi, né loro. Ora non c’è: c’è, e non sta per niente in sottofondo, un’idea messianica che ci ha portato vicinissimi all’annessione di Gaza e della Cisgiordania. Io resto convinto della necessità di un accordo e del riconoscere un ruolo all’Autorità nazionale palestinese. Ma la maggior parte della gente in questo Paese vive ancora immersa nel dramma del 7 ottobre e dice “no” a qualunque possibilità, nel timore che possa portare a nuovo dolore per noi. L’unica scusa buona che trovo è che non puoi pensare a una soluzione se sei in mezzo a una crisi».
Fuor di metafora, dove vede Israele da qui a un anno?
«Vedo due campi. Quello di Sparta, con le sue idee chiare. E un campo confuso e non articolato che sa di dover trovare soluzioni alternative e che in qualche modo riconoscano un percorso verso lo Stato palestinese: ma che al momento è diviso e non pensa troppo al dopo. Di nuovo, se non chiudiamo il capitolo ostaggi è difficile andare avanti».
E Netanyahu?
«Cercherà un nuovo nemico. Per anni ha detto al Paese che lo stava proteggendo da Hamas… salvo poi lasciargli uccidere 1200 persone. Ora dice che ha distrutto Hamas, quindi gli serve un altro spauracchio. Al momento direi che lo ha individuato nell’antisemitismo: il nostro primo ministro cerca costantemente di confondere l’idea di essere ebreo con quello che fa questo governo israeliano. Come se criticare il governo significasse per forza essere antisemiti. All’estero grida all’antisemitismo dilagante, all’interno del Paese dice “se sei ebreo, non puoi unirti a quelli che criticano l’Idf, perché sono antisemiti. Devi prendere posizione: stai con gli antisemiti o con il tuo Paese?”».
Però c’è gente come lei, come David Grossman, come gli attivisti di Peace Now e B’Tselem, che continua a parlare. E a criticare…
«Sì ma non è facile. Per niente».
Lei resta: potrebbe andare via…
«Potrei ma non lo farò. La follia non è solo in Israele: qui forse è più estrema ma anche il resto del mondo secondo me non sta benissimo. Stiamo andando tutti in caduta libera: noi probabilmente siamo due piani più sotto degli altri. Per quanto riguarda me, fino a quando mi sarà possibile parlare, io resterò. Dopo non lo so: ma è chiaro che sono preoccupato. Chi, fra noi artisti, ha firmato le petizioni contro la guerra in questi mesi è stato ostracizzato, insultato, minacciato o ha perso lavori. Non è per niente facile. Io cerco di fare la mia parte: scherzo spesso con Shira, mia moglie (Geffen, attrice e regista molto conosciuta in Israele, ndr.) dicendo che prima ero uno scrittore: ora sono un rabbino. La gente è smarrita e tanti scrivono a me per chiedere consigli sulla vita, sulle relazioni, su cosa fare. Provo a rispondere, sono in dialogo costante con il mondo lì fuori: mi illudo che serva. E poi sto lavorando a un nuovo libro e con i miei tempi, non sarà pronto prima del 2031: come sarà Israele allora? Sarà permesso a uno come me di pubblicare libri? La gente li leggerà ancora? Ho tante domande, ma poche risposte».