Il filosofo Ludwig Wittgenstein sosteneva che: “l’estetica e l’etica sono una cosa sola”. Una frase che mi è tornata alla mente leggendo l’editoriale di Rino Genovese (vedi qui) sulla estetica del brutto berlusconiana. Al di là delle complesse implicazioni di quello che intendeva Wittgenstein con la sua sintetica formulazione, poche volte nella storia di questo Paese etica ed estetica sono apparse così fuse e confuse come nel caso di Berlusconi. Gli elementi di osceno e grottesco caratteristici del personaggio, e ben delineati nell’editoriale di Genovese, assurgono a strumenti di dominio politico attraverso l’introduzione di categorie etico-politiche di rottura. Nel dispiegarsi del complesso simbolico-mediatico attivato da Berlusconi, un’intera macchina politica e valoriale prende forma attraverso l’esibizione sguaiata della volgarità personale, della ricchezza, mediante la rivendicazione sistematica della mediocrità e della ignoranza.
In particolare, colpisce l’accento messo sul lusso come componente fondamentale dell’esistenza, e quale segno di distinzione di una élite di privilegiati parvenus, che chi è “rimasto indietro” deve disperatamente rincorrere. L’élite non è raffinata, non è aristocratica. Qualunque disgraziato può diventare “imprenditore” o personaggio televisivo, e può accedere ai beni agognati se il suo nome viene estratto nella lotteria sociale.
Il tempo della volgarità è dunque anche il momento di una potente ripoliticizzazione delle masse in senso capitalistico, che opera mediante una apparente democratizzazione degli accessi al potere e alle posizioni di prestigio. Il lusso pacchiano serve a mobilitare le masse, a scatenarle nella caccia a tutto ciò che è “esclusivo”, e al tempo stesso a individuare l’oligarca, il nouveau riche da ammirare e imitare, che non è tale per particolari meriti, per preparazione o intelligenza, ma per una sua capacità furbesca di approfittare di circostanze favorevoli.
Viene così rovesciata tutta una morale lavorista precedente, dissolta la retorica del buon gusto e della austerità del potere: è l’epoca dei Rolex in regalo, delle cravatte firmate di sartoria, delle grisaglie d’ordinanza, del capello perennemente tinto o del toupet, del denaro usato sfrontatamente per dominare o corrompere. L’Italia cattolica e comunista non nascondeva una certa riprovazione per l’esibizione della ricchezza, a causa del perdurare di un discorso religioso e politico di esecrazione dello sfarzo e della ostentazione, che aveva origini lontane. Sotto la spinta dei nuovi valori sbiadiscono fino a diventare incomprensibili figure come quella di Aldo Moro che – come rievocavano i figli – andava in spiaggia in giacca per non ledere l’immagine della sua dignità politica, o circolava per l’Italia con pochi spiccioli in tasca. A Genova, durante un dibattito, un vecchio comunista raccontava che negli anni Cinquanta e Sessanta gli eletti in parlamento del partito venivano quasi compatiti per quello che avrebbero trovato a Roma, in termini di corruzione e malcostume: “Moralmente il partito era come una chiesa”.
Una lunga tradizione di critica sociale della esibizione di ricchezza viene quindi annientata nel momento in cui si reintroduce l’esperienza del lusso, che non si riduce più all’ottenimento di oggetti che soddisfano uno scopo: di un orologio, di un tappeto, di una casa, di un’automobile. Nel mondo nuovo dischiuso dal berlusconismo il lusso torna a essere presentazione del sé, si palesa in una versione così elaborata che non si può più parlare di finalità, quanto piuttosto di ostentazione, di acquisizione di distanza e di prestigio mediante l’esibizione di oggetti di valore, sostanzialmente inutili.
Non sono in sé novità assolute: già se n’era interessato l’economista e sociologo Werner Sombart agli inizi del Novecento, subito prima dello scoppio della prima guerra mondiale. Sombart definiva il lusso come “padre del capitalismo”: il commercio su larga scala dei beni suntuari, infatti, avrebbe caratterizzato le prime imprese tipiche dell’epoca economica moderna. L’ascesa della borghesia e la nascita delle metropoli avrebbero creato una nuova esigenza di lusso e nuove possibilità di piacere e di vita allegra. Non a caso, all’epoca, sorsero i primi locali di divertimento, nacque la vita notturna, con i locali da ballo, i music-hall e i teatri. In questo modo, i “nuovi ricchi”, che emulavano gli stili di vita delle corti nobiliari che avevano soppiantato, orientarono le scelte di consumo verso beni raffinati ed esperienze esclusive, al fine di esibire il proprio status sociale. Con il berlusconismo si ha quindi un ritorno di stagioni precedenti del capitalismo, in cui l’edonismo e il primato del successo personale si giocano versus l’etica pubblica.
Certo, l’Italia degli anni Novanta non è l’Inghilterra vittoriana o la Germania di Weimar; ma l’irruzione di questi orientamenti fa segnare un cambio d’epoca, e il loro potente dispiegamento mediatico crea un regime di simulacri, in cui il lusso come eccesso diviene manifestazione barocca e volgare di quanto si possiede, stile di vita. È la pseudo-cultura della macchinona, dell’abito griffato, dietro cui si celano cinismo, spietatezza, ricerca accanita del successo personale. Il sistema di dominio instaurato da Berlusconi tiene insieme tutti questi elementi, consolida un potere instabile mediante il ricorso al richiamo di seduzioni profonde, crea un sistema degli oggetti e delle loro immagini che diviene l’immaginario di massa preponderante nel Paese, sostituendo il poster di Angela Davis con quello della soubrette discinta con la lingerie che costa quanto il salario mensile di un operaio.
Difficile però liquidare una stagione lunga un trentennio solo sotto il segno della regressione o di un ambiguo ritorno della belle époque. Il berlusconismo attinge anche a radici profonde del Paese: anti-intellettualismo, rifiuto della politica “ideologica”, egoismo qualunquista e opportunismo irresponsabile e radicale. Costruisce un suo sistema di segni: il vocabolario e le narrazioni che produce non sono semplicemente simboli; sono ufficialmente investiti di un surplus di significati che non sono negoziabili e che è difficile mettere in discussione singolarmente, senza attaccare la costruzione nel suo complesso. Per assicurarsi che una contestazione non abbia luogo, viene inventata una intera costellazione di idee; viene adottato un insieme distinto di repertori culturali e di concetti fortemente evocativi. L’obiettivo centrale del berlusconismo non è stato solo quello di far nascere e alimentare una specifica forma di coscienza estetica e politica, ma quello di renderla enormemente operativa ed efficace. Per questo, anche post-mortem non sarà facile liberarsene.