Giornata storica ieri per il cambio euro/dollaro. Le due monete, dopo vent’anni, sono arrivate a scambiarsi ad un tasso di (quasi) parità. Uno ad uno. Mai accaduto dal dicembre 2002. C’è stato un momento, nella mattinata, in cui l’euro era quotato addirittura sotto la parità, salvo poi adagiarsi vicinissimo ad essa (1,006 dollari per un euro).

UN FULMINE a ciel sereno? Non proprio. La moneta europea è da un po’ che perde quota rispetto al biglietto verde (-13% nell’ultimo anno), ma la congiuntura è importante per comprendere quest’ultimo dato. La guerra russo-ucraina, che non è mai stata soltanto un conflitto regionale tra paesi confinanti, sta alimentando una crisi energetica senza precedenti, della quale a farne le spese sono innanzitutto i Paesi europei. Impennata dei prezzi dei beni energetici, inflazione da costi che si riverbera sui prezzi al consumo; torna lo spettro della recessione, nonostante i programmi di ripresa messi in piedi da Bruxelles. Recessione ed inflazione. Uno scenario che ricorda, per alcuni aspetti, le crisi petrolifere e la stagflazione degli anni Settanta. E, a ben vedere, le stesse decisioni che le banche centrali assunsero in quel periodo per far fronte ai problemi nuovi che le economie occidentali si trovarono davanti dopo i «trent’anni gloriosi».

MA VENIAMO all’oggi. L’Europa non è l’America, dove l’inflazione è trainata dalla piena occupazione e dai consumi. È il costo dell’energia che riversa i suoi effetti sul prezzo degli altri beni. Ma Francoforte ha deciso, come gli omologhi americani, di combattere l’inflazione alzando i tassi d’interesse e chiudendo i programmi di acquisto dei titoli di stato sul mercato secondario. Meno moneta in circolazione, prezzi che tenderanno a scendere. Vecchio dogma monetarista. Anche a costo di assecondare il ciclo economico e portare l’Europa verso una dura crisi sociale.

È QUELLO, in fondo, che paventano i mercati. Gli investitori scommettono, per adesso, sull’incapacità dell’Europa di resistere alle sopravvenute avversità post-pandemiche. E scappano. Scappano dall’euro, si rifugiano nel dollaro, considerato più sicuro, oltre che più redditizio proprio per le decisioni sui tassi che la Fed dovrebbe assumere da qui a poco. Semplice: il tasso guida deciso dalla banca centrale influenza tutti gli altri tassi, che aumentando allettano maggiormente gli investitori (ricordate la decisione della banca centrale russa di alzare il tasso guida al 20% per sostenere il corso del rublo?). Una prima spiegazione, canonica, dell’apprezzamento del biglietto verde.

IN UN CONTESTO per così dire «normale», nondimeno, la svalutazione dell’euro rispetto al dollaro potrebbe anche avere effetti benefici per le economie europee. Una boccata d’ossigeno per le economie export-led, come quella italiana e quella tedesca, che hanno sofferto in questi ultimi due anni la contrazione degli scambi internazionali a causa della pandemia. Il conteso, però, non è di quelli «normali» e l’euro debole, adesso, aggrava il costo di approvvigionamento delle principali materie prime.

GLI EFFETTI già si vedono. La bilancia commerciale tedesca, a maggio, ha fatto registrare per la prima volta dal 1991 il segno meno, mentre l’Italia, ad aprile, è passata, su base annua, da un avanzo commerciale di 4,750 miliardi a un disavanzo di 1,662 miliardi. Per quanto riguarda l’Unione europea nel suo complesso, basta ricordare che ad aprile faceva registrare un surplus di 37 miliardi di dollari, quando appena un anno fa era di 290 miliardi. Un vero e proprio crollo, che dà l’idea di cambiamenti epocali nella struttura economica del Vecchio Continente.

IN BREVE: gli effetti positivi sull’export della valuta debole (in Italia +14,9% ad aprile, su base annua) sono quasi del tutto neutralizzati dall’aumento vertiginoso dei prezzi all’importazione dei prodotti primari. Che paghiamo in dollari. Seconda spiegazione dell’apprezzamento del biglietto verde. Ma non è tutto. Uno squilibrio prolungato delle bilance commerciali esporrebbe alcuni Paesi, come l’Italia, a gravi rischi. Per colmare la differenza tra il valore delle esportazioni e quello delle importazioni ci sono tre strade: utilizzare le proprie riserve, svalutare la propria moneta, contrarre prestiti in valuta. Nel caso italiano, le prime due strade sono da escludere. Rimane la terza, ovvero indebitarsi con l’estero. Purtroppo, però, non siamo gli Stati Uniti, che i suoi disavanzi commerciali li finanzia con la sua stessa moneta. Moneta di riferimento degli scambi internazionali. Almeno fino ad oggi.