Il Cairo. Le truppe dell’esercito israeliano (Idf) continuano l’avanzata verso il sud della Striscia, intanto la diplomazia sta lavorando. Per la prima volta da settimane, c’è una proposta che entrambe le parti stanno prendendo in considerazione: 45 giorni di tregua e il rilascio di tutti gli ostaggi. L’accordo è mediato da Stati Uniti, Qatar ed Egitto. Secondo il Washington Post il governo israeliano ha già accettato “in linea di principio” e l’ufficio politico del movimento islamista è volato ieri al Cairo per definire i dettagli. Le richieste palestinesi sono dure da accettare per Israele: tre detenuti rimessi in libertà per ogni ostaggio liberato. Dall’inizio del conflitto, solo in Cisgiordania, Israele ha arrestato oltre 3 mila palestinesi. La seconda richiesta di Hamas lascia aperta una porta importante a Israele: l’Idf dovrebbe posizionare le truppe, allontanandosi dalle zone densamente popolate e al contempo permettere una migliore e più copiosa distribuzione degli aiuti umanitari. Una ricollocazione delle forze armate israeliane implica l’accettazione da parte di Hamas della presenza militare israeliana dentro la Striscia. Questa è una condizione fondamentale per Netanyahu.
Il primo ministro, che ieri ha incontrato i parenti degli ostaggi promettendo di “fare il possibile” perché possano riabbracciare i propri cari, ha ripetuto più volte che alla fine del conflitto la sicurezza di Gaza deve essere garantita da Israele con la possibilità di essere affiancata, nel tempo, da una forza internazionale. Intanto la possibilità che il suo governo cada per l’opposizione dell’alleato Ben Gvir all’accordo, ieri è stata smentita dai media israeliani secondo cui l’opposizione di Yair Lapid sarebbe pronta a entrare nel gabinetto di guerra. Sei settimane sono un periodo sufficientemente lungo per immaginare una trasformazione della tregua in un cessate il fuoco permanente. Israele non è riuscito nell’intento di catturare, o uccidere, i tre leader militari di Hamas all’interno della Striscia: Yahya Sinwar, Mohammed Deif e Abu Obaida. Ma militarmente ha conquistato abbastanza territorio da allargare la buffer zone attorno alla Striscia. Mentre Ismail Haniyeh, il leader politico di Hamas, ha ricevuto al Cairo le tre pagine contenenti i punti dell’accordo i suoi delegati in Libano si sono incontrati con i rappresentanti di Fatah, il partito del presidente Mahmud Abbas. Le dichiarazioni ufficiali si riferiscono a un migliore coordinamento delle attività politiche delle due forze palestinesi. La necessità appare sempre più evidente. Dopo l’apertura britannica per il riconoscimento di uno Stato palestinese, ieri il sito Axios ha riportato che anche il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, sta valutandone la possibilità. Da decenni la Casa Bianca aveva abbandonato questa ipotesi, lasciando così mano libera ai governi israeliani di spingere su una divisione tra Gaza e Cisgiordania. La mancanza di una leadership palestinese credibile ha fatto il resto. Tutti i paesi della regione guardano con estrema attenzione a ogni sviluppo. Secondo i dati dell’Undp tre mesi di guerra sono costati a Egitto, Libano e Giordania già 10,3 miliardi di dollari, circa il 2,3% del totale dei loro Pil. Il Cairo è sull’orlo del default. Nel 2023 la crescita del Paese si è ridotta al 2% dal 5,6% dell’anno precedente. La contrazione di turismo e traffico del Canale di Suez mettono in seria difficoltà l’Egitto che deve pagare gli interessi dei prestiti internazionali. Inoltre il presidente Al-Sisi sente aumentare la pressione dei palestinesi sulla penisola del Sinai. Il governo israeliano ha fatto sapere di voler ottenere il controllo del corridoio Philadelphia: i 14 chilometri di confine tra Striscia di Gaza ed Egitto. Per Tel Aviv è una questione militare: i gazawi sarebbero circondati e controllati. Per l’Egitto sarebbe come aver perso la guerra senza averla combattuta. Inoltre centinaia di migliaia di palestinesi tenterebbero di attraversare il valico. E il Cairo dovrebbe gestire campi profughi nel deserto del Sinai.