«Che cosa hanno in comune Gerusalemme e Atene?». Domanda antica quella del rapporto tra cultura biblica e cultura classica che aveva diviso già gli stessi padri della Chiesa. Per l’intransigente Tertulliano (II-III secolo), al quale si deve anche la definizine della donna come «porta del diavolo» (ianua diaboli), nulla possono condividere Atene e Gerusalemme, la filosofia di Platone e la chiesa, gli eretici e i cristiani. Di avviso opposto Basilio d Cesarea (IV secolo), il quale nel Discorso ai giovani esortava i nipoti a considerare i classici maestri non solo di intelletto ma anche di vita. Agostino (La dottrina cristiana 2, 60 sg.) adotterà un ulteriore punto di vista, ricorrendo al motivo del trafugamento delle spoglie degli Egiziani: come gli Ebrei, fuggendo dall’Egitto, non solo sfuggirono all’idolatria ma portarono con sé gioielli, vasi d’oro e d’argento e vesti facendone un uso migliore, allo stesso modo i cristiani, pur detestando i contenuti (res) della cultura pagana, possono ereditarne le parole (verba) per un uso migliore (ad usum meliorem). La divergenza delle interpretazioni non sorprende se pensiamo che cultura del Libro è quella biblica, cultura dei libri quella classica: per dirla con Giuseppe Flavio (I secolo), la prima improntata al all’accordo (symphonía), la seconda al “disaccordo” (diaphonía).
Quella domanda torna ai nostri giorni nella consapevolezza che quei due mondi – in verità più nel segno delle loro vistose differenze – non solo hanno segnato tutti i linguaggi della nostra Europa ma possono ancora fornirci una grammatica per decifrare i nuovi interrogativi filosofici, religiosi, antropologici.
I classici, incapaci di immaginare il futuro, avevano ancorato le loro utopie al notum del passato e allo stesso mito dell’età dell’oro (Saturnia tellus). Di qui, la concezione ciclica del mondo e della storia con l’eterno ritorno delle età: un motivo altamente produttivo da Esiodo (VIII-VII secolo a. C.) al nostro Vico. Una idealizzazione del passato alla quale corrispondeva l’assolutizzazione del presente, come ci insegnano Seneca con il protinus vive, «vivi immediatamente», e Orazio con il carpe diem, «cogli l’attimo fuggente». In questa prospettiva, dove tutto ritorna nella forma compiuta del cerchio, non c’è posto per il novum e per la speranza, definita addirittura una «passione» fallace (fallax) e mostruosa (dira), un incantesimo (dulce malum) e un sacrilegio (nefas). Le uniche speranze conosciute dalla classicità sono quelle «cieche» che il Prometeo di Eschilo ha istillato in noi illudendoci di essere immortali. All’opposto sta la concezione biblica della storia, direzionale e progressiva, incardinata nell’avvento di Cristo, il quale taglia il tempo in un prima e in un poi, e poiché è morto una sola volta, come ci ricorda la Lettera agli Ebrei, non si dà nessun eterno ritorno, bensì il continuo rinnovamento della storia nella prospettiva escatologica. Di qui, la novità della speranza che, fondamento della salvezza per i credenti (Romani 8, 24), sarà valore adottato e adattato dalle ideologie infuturanti, quali l’illuminismo e il marxismo.
Analoga divaricazione dobbiamo riscontrare nel discorso teologico. Al Dio creatore e antiidolatrico della Genesi, personale e salvatore del Nuovo Testamento, che non solo cerca l’uomo ma si fa addirittura uomo, risponde la religione classica delle statue e del tempio, modulata in mitica (fabulosa), cosmica (naturalis) e politica (civilis). Il pagano Seneca sembra infrangere questo paradigma là dove dice: «Dio è accanto a te, è con te, è in te» (Lettera 41, 1). Dunque, Seneca cristiano? Da annoverare nel catalogo dei Santi, come voleva san Girolamo? Da riabilitare e accreditare anche il suo epistolario con san Paolo conclamatamente falso? A quanti vogliono arruolare Seneca tra i cristiani va detto che quello senecano – come quello pagano ricordato da Paolo nell’Areopago (Atti degli Apostoli 17, 23) – è un «Dio ignoto»; è un dio che il sapiens, del tutto ignaro della nozione della grazia come donum Dei, intende addirittura sfidare con la sua voluntas in una sorta di assalto al cielo; è un Dio potente e impassibile (impatens), ben lontano dal Deus patiens della Croce. Sulla dimensione del divino, tra Gerusalemme e Atene c’è tutta la distanza che intercorre tra la rivelazione e la religione. Tanto innegabili quanto sorprendenti, invece, le consonanze etiche stoiche e specificamente senecane non prive di accenti evangelici e anche mistici, come quando nella Lettera 95 leggiamo: «Nostro dovere è porgere la mano al naufrago, indicare la via a chi l’ha smarrita, dividere il pane con chi ha fame […]. Noi siamo le membra di un grande corpo e la natura ci ha generati parenti (cognati) e socievoli, vincolati da obblighi reciproci».
Diversa anche la concezione dell’“altro”. Inclusiva Roma che rende cittadini (cives) gli stessi nemici (hostes), che adotta il sapere e le arti dei vinti, che riconosce un Pantheon meticcio. E mentre a Roma cittadini si diventa, in Grecia cittadini si nasce: per cui i non Elleni sono considerati barbari e schiavi, secondo lo stesso Aristotele (Politica 1, 1, 5). Il Cristianesimo farà giustizia di tutti questi giudizi e pregiudizi, annunciando una nuova legge, il nomos dell’amore, per il quale «non c’è né giudeo, né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna» (Galati 3, 28). Vero è che, al fondo, c’era una diversa concezione del prossimo. All’uomo biblico, creato a immagine e somiglianza di Dio e destinato a condividere la traiettoria della storia della salvezza in una prospettiva prima di caduta e poi di resurrezione, si contrappone l’uomo classico, solo, senza un Dio da bestemmiare o da pregare, segnato irrimediabilmente dal limite (finis): il male e la morte, due questioni ultime che il sapiens non potrà che rimuovere, appellandosi al principio “irresponsabile” che tutto è secundum naturam. Infatti l’uomo classico non aveva, come l’uomo biblico, il compito – per noi drammaticamente attuale e urgente – di «coltivare e custodire» la natura, ma lui stesso, marginale e anonima parte dell’universo, era un compito della natura.