
I belli e dannati dell’arte italiana
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15 Giugno 2025Nell’incipit di un libro ormai iconico, Michael Baxandall avvertiva che un dipinto del Rinascimento è sempre «testimonianza di un rapporto sociale» ed economico, perché da un lato c’era un pittore che realizzava il quadro e, dall’altro, «qualcuno che lo commissionava, forniva il denaro per la sua realizzazione e decideva in che modo usarlo». Allargando questo concetto, si può ben dire che un’opera d’arte era (ed è) anche traccia di un rapporto culturale complesso e sfuggente, che in primo luogo coinvolgeva l’artista stesso e il suo cliente e, in seconda battuta, altri potenziali (ma concretissimi) osservatori. D’altronde, già Roberto Longhi aveva affermato che un’opera è «sempre in rapporto» e che per questo bisogna sottrarla al suo idealistico e fuorviante isolamento, dunque alla sua dimensione odierna di muto reperto museale o libresco, oggetto di una cheta (e talvolta ottusa) contemplazione. Tanto più che i dipinti e le sculture del passato sono nati, semmai, per generare glossa e per essere inseriti in un contesto significativo e significante che li connotava e contribuiva a renderli strumenti efficaci di interazione sociale e di raffinate pratiche culturali.
Molte tavole o tele che oggi si ammirano in rigoroso silenzio (o al massimo col sottofondo di una musichetta d’ambiente), appese sulle pareti asettiche di molti musei o sugli effimeri pannelli della mostra di turno, erano invece racchiuse entro cornici «parlanti», spesso accompagnate da iscrizioni rivelatrici, oppure oscurate da «coverchi» dipinti, che ne completavano la lettura. Che fossero conservate nello spazio intimo di uno studiolo o in un ambiente di più alta rappresentanza, queste opere (non stiamo ovviamente parlando di arredi sacri, destinati piuttosto alle funzioni liturgiche) non erano solo motivo di vanto o piacere del proprietario, ma servivano anche da conversation pieces, ossia da pretesti per avviare discussioni eruditissime tra gli stessi collezionisti e i loro ospiti privilegiati. A riprova di questa pratica culturale, che serviva ad affermare un certo status intellettuale, si può richiamare il passo di un poemetto di Giovanni Aurelio Augurelli, peraltro dedicato al più noto Pietro Bembo, in cui si dice che di fronte a certi dipinti privati si era chiamati a esprimere la propria opinione e che questa discussione, in cui quasi mai si trovava un accordo, era «ancora più attraente del quadro stesso».
Dunque, le opere d’arte (comprese quelle letterarie) erano motore di un vero circolo ermeneutico e per preservare quello che Roland Barthes avrebbe poi definito «il piacere del testo» erano intese, fin dall’origine, come «opere aperte», dal contenuto elusivo e volutamente ambiguo, tanto che nel Cortegiano (1528) di Baldassar Castiglione si parla dell’«acutezza recondita» come forma estrema di finezza e intelligenza, esclusivo appannaggio delle élites più colte. E se in queste élites, sia pure in posizione subalterna, cominciarono adessere ammessi anche gli artisti più celebri e dotati, fu proprio per le loro qualità inventive, capaci di tradurre in immagini affascinanti e allusive tutto l’universo di miti, idee e valori dei loro potenti mecenati.
Tra le figure che meglio incarnarono, almeno a Venezia, questo nuovo ruolo di artefice/poeta vi fu senz’altro Giorgione da Castelfranco, apprezzato soprattutto per le sue opere di piccolo o medio formato, quasi enigmi dipinti di difficile risoluzione e che ancora oggi fanno accapigliare gli studiosi (e non solo iconologi) più accaniti. È su uno dei capolavori più rinomati di Giorgione, i cosiddetti Tre filosofi del Kunsthistorisches Museum di Vienna, che si concentra il bel libro di Giulia Zaccariotto «Vivitur ingenio» I Tre filosofi di Giorgione e Taddeo Contarini, edito con la solita cura artigianale (nel senso migliore dal termine) da Officina Libraria (prefazione di Salvatore Settis, pp. 144, ill. a colori e in b/n, euro 15,00).
Dei Tre filosofi si sa che era uno dei quadri visti da Marcantonio Michiel nel «portego» della casa veneziana di Taddeo Contarini, accanto ad altri dipinti mirabili come l’Estasi di san Francesco di Giovanni Bellini (ora a New York, Frick Collection). Grazie alla scoperta di un manoscritto autografo di Marin Sanudo, conservato presso la Biblioteca Marciana di Venezia, Zaccariotto ci informa che il diarista ufficiale della Serenissima lesse e appuntò, «subtus tres philosophi», l’iscrizione «Vivitur ingenio caetera mortis erunt», forse contenuta in una cornice oggi perduta. Questo motto, più o meno traducibile come «si vive attraverso l’ingegno, tutto il resto è della morte», è tratto dalla prima Elegia a Mecenate, un testo latino del I secolo d. C., che a lungo fu attribuito nientemeno che a Virgilio.
In realtà, Sanudo non precisa di quali «filosofi» stia parlando, ma l’ipotesi che si tratti proprio del dipinto di Giorgione posseduto da Contarini è avanzata da Zaccariotto con argomenti decisivi, che non lasciano troppo spazio ai dubbi. Con la stessa ammirevole e ormai rara acribia, la studiosa ricostruisce la fortuna della massima pseudo-virgiliana, che per esempio compare nel ritratto di Willibald Pirckheimer inciso da Albrecht Dürer nel 1524 e in alcune illustrazioni di famosi volumi scientifici composti nel Cinquecento, come il trattato anatomico di Andrea Vesalio, stampato a Basilea nel 1543, l’importante commento di Vitruvio pubblicato nel 1547 dal medico tedesco Walther Hermann Ryff e soprattutto l’Astronomiae instauratae mechanica (1598) del grande scienziato danese Tycho Brahe, dedicato agli apparecchi utilizzati per misurare la sfera celeste.
Come sottolinea Giulia Zaccariotto, è proprio il trattato di Brahe a far scattare un corto circuito misterioso, ma certo suggestivo, con la tela giorgionesca, visto che «dei tre personaggi raffigurati da Giorgione, quello seduto è intento in un calcolo scientifico e regge nelle mani una squadra e un compasso, strumenti affini all’attività di misurazione che il danese era solito svolgere e andava a spiegare mediante il suo testo a stampa». Tutto ciò ben si sposa con l’idea già formulata da Salvatore Settis (1978), e ora ribadita nella bella introduzione al saggio di Zaccariotto, che i «tre filosofi» ritratti da Giorgione non siano altro che i re Magi venuti dall’Oriente, intenti a stabilire l’esatta posizione dell’astro che doveva guidarli verso il nuovo Basileus, nato nella lontana Betlemme: l’iscrizione «Vivitur ingenio caetera mortis erunt» che accompagnava il dipinto doveva perciò connotarli, in maniera immediata, come uomini di scienza, ossia come modello di sapienza congiunta alla fede, che con la forza dell’ingegno vince appunto la morte e si proietta verso una fonte di vita vera ed eterna.