Milano. Estate 1932. Tre amiche poco più che adolescenti sono ai giardini di Porta Venezia. Una di loro rimanda il pallone a dei ragazzi che stanno giocando poco lontano. Così ha inizio la storia che le porterà a fondare la GFC – Gruppo Femminile Calcistico di Milano, il primissimo esperimento di calcio femminile in Italia, dapprima permesso dal gerarca Arpinati, allora presidente del Coni, e stroncato dopo meno di un anno da Achille Starace.

Questa la vicenda al centro di Giovinette, le calciatrici che sfidarono il duce, spettacolo diretto dall’attrice e regista Laura Curino, co-prodotto da PEM Habitat Teatrali e Rara Produzione, con Rossana Mola, Rita Pelusio, Federica Fabiani (sostituita per un periodo da Chiara Stoppa). Tratto dal romanzo di Federica Seneghini e Marco Giani, adattato da Domenico Ferrari, lo spettacolo, dopo una grande risposta di pubblico, riprende la sua lunga tournée il 26 gennaio a TNT Teatro Nuovo Treviglio (BG).
Ne parliamo con la pluripremiata Laura Curino, volto storico del teatro di narrazione, che da sempre lavora per le donne, con le donne e «scrive da un punto di vista femminile come conseguenza naturale».

Chi sono le «giovinette», com’è nato lo spettacolo?

È un’idea della compagnia Pem che ho abbracciato molto volentieri, frutto di un lavoro di gruppo. Federica Seneghini ha romanzato con dati certi la vicenda partendo da un’intervista alle anziane sorelle Boccalini di Lodi. Giovinette era una parola molto comune per chiamare le ragazze, nelle prime lettere in cui chiedono di essere riconosciute, le protagoniste si presentavano come una squadra di «giovinette». Ci siamo avvicinati a loro attraverso il materiale di archivio: articoli di giornale spesso canzonatori, lettere, direttive del Coni. Siamo stati attenti a usare le parole dell’epoca per far entrare il pubblico nella storia.

Cosa raccontate?

Tre ragazze adolescenti giocano per seguire un sogno, già questo in sé dava fastidio. Il loro cammino: otto mesi di lotta, euforia, consapevolezza di cosa vuol dire essere private della libertà. In scena ci sono tre giocatrici che provengono da ambienti completamente diversi. Lucchesi era di famiglia modesta, fascista, lavorava in un negozio di vini come contabile. Boccalini è una delle sorelle Boccalini di Lodi: avevano vissuto gli scontri di piazza, un loro zio era tra le persone ferite. Giovanna, tesoriera della squadra, fu una nota partigiana. Siamo andate a fare spettacolo a due passi dalla loro casa, celebrandone il ricordo. Strigaro faceva la commessa nello stesso negozio, era una sorta di ufficio stampa ante litteram, una comunicatrice furibonda, si prodigò per far conoscere al mondo quello che stavano facendo. Erano tifose dell’Inter, il loro leader era Meazza. Costituirono una società, il presidente era il proprietario del negozio, pubblicarono sui giornali un annuncio per cercare altre ragazze da ingaggiare. Mandarono lettere a tutti gli enti sportivi. Perseverarono finché non vennero riconosciute dal Coni.

La visibilità è stata la loro forza ma anche un problema

Più diventavano famose, più il regime non poteva disinteressarsi a loro, davano fastidio. Le restrizioni erano sempre più pesanti: non potevano usare calzoncini ma la gonna, dovevano giocare in un campo piccolo e a porte chiuse, per non essere viste. In porta dovevano esserci due maschi. Fino al dover essere visitate da un medico per controllare che il gioco non intaccasse il loro apparato riproduttivo. Non da un dottore qualunque, ma Nicola Pende che in quel periodo stava facendo studi sul miglioramento della razza italiana. Stabilì che si poteva giocare ma «con moderazione». Dopo otto mesi, arrivò la prima partita con l’Alessandria: nel frattempo, sulla scorta della GFCerano nate molte altre squadre di calcio femminile non riconosciute. La loro fama era giunta alle alte sfere: il neo presidente del Coni Starace, inventore del sabato fascista, decise che quella partita non si sarebbe mai più disputata. Lì finì tutto.

Che ci insegnano le giovinette?

In questo spettacolo c’è la storia con la S maiuscola. In altri paesi come la Gran Bretagna, l’Australia le donne potevano giocare a calcio. Alle giovinette fu impedito, alcune si riconvertirono nella corsa e in altri sport più solitari dove ottennero buoni risultati. Fu il concetto di squadra a essere punito: la squadra è presenza, gruppo, consapevolezza, manifesto di diversità. Queste donne erano entrate a gamba tesa in un regno che doveva restare maschile. Davano visibilità a un modello di donna insostenibile per il regime che ne stava creando un altro, quello della fattrice che doveva dare figli alla patria. Sembra incredibile: oggi vengono sdoganate affermazioni che credevamo sepolte. Mi piace pensare che le giovinette abbiano vinto la loro partita con la Storia. Sono state la prima squadra di calcio italiano femminile, siamo ancora qui a parlare di loro. In questi giorni alla cooperativa è arrivata la nipote di una delle «giovinette». Tutte le sere in teatro c’è una squadra di calcio femminile e un’allenatrice che al termine dello spettacolo si presenta. La produzione è molto attiva nel mettere in comunicazione il pubblico con le realtà locali che promuovono lo sport femminile. Questo vuol dire tanto. Significa avere un incontro, ogni sera, che ci dà il senso di una ricaduta, di una permanenza, anche quando lo spettacolo finisce.