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IL LEONE CHE DELUDE
5 Ottobre 2025Giulio Paolini, antologia: impersonale e simultaneo
Per i letterati il gesto dell’auto-antologia ha sempre qualcosa di doloroso, per non dire sacrificale. Rinunciare a una parte di sé può equivalere (esagerava ilare il Manganelli dell’Antologia privata, l’anno prima del congedo) al banchetto atroce di Tieste che nel mito (messo in scena, fra gli altri, da Seneca e Foscolo) si nutre delle carni dei propri figli: «una legittima strage» per mezzo della quale «il così detto autore può dar sfogo alla parte più cruda della sua ambivalenza verso quei libri». Meno splatter parrebbe il gesto della retro-spettiva negli artisti. Guardare al proprio lavoro da dopo consente loro di gustarsele come fossero quelle di qualcun altro; selezionando quella porzione di sé che paia corrispondere, senza residui, al loro sé di adesso. («Ora per allora», come si dice: dove allora è sia il passato che prefigurava questo presente, sia il futuro che lo stesso prefigura).
Fra gli «artisti del nostro tempo» (una formula che pare fatta apposta per irritarlo), chi ha portato alle estreme conseguenze questo paradigma di impersonalità, e insieme simultaneità, è senz’altro Giulio Paolini. Il libro pubblicato dalla Fondazione Giulio e Anna Paolini (Eccomi. Qui dove sono, pp. 141, ill. col., € 35,00) è un manufatto niveo e come sempre impeccabile. Ed è insieme il catalogo di una retro-spettiva ideale nonché l’auto-antologia più aggiornata dei suoi scritti (ne urge un’edizione «ragionata» che prosegua La voce del pittore, curata da Maddalena Disch ormai trent’anni fa). L’impersonalità è collegata alla sua negazione del «tempo« come asse evolutivo del linguaggio (non è casuale il suo culto per de Chirico, l’anacronico per antonomasia: si veda la raccolta Un incontro mancato, Aragno 2019).
Quando Italo Calvino, nel testo premesso nel ’75 a Idem (completato della sua inedita seconda parte nella riedizione Electa del ’23), indicava in Paolini la volontà di «annullare l’io individuale per identificarsi con l’io della pittura d’ogni tempo, l’io collettivo dei grandi pittori del passato, la potenzialità stessa della pittura», scopriva un’anima gemella (nelle Lezioni americane vagheggerà «un’opera concepita al di fuori del self»; ma già in Se una notte d’inverno un viaggiatore – l’«iper-romanzo» rampollato proprio dalla riflessione su Paolini, che lo porta in scena come larvato antagonista – si lamentava: «Come scriverei bene se non ci fossi!»). Ma ripeteva il più citato assunto dell’artista: quando nel ’68 «invocava nel suo lavoro la trasparenza etimologica delle opere di Beato Angelico, Johannes Vermeer, Nicolas Poussin, Lorenzo Lotto, Jacques-Louis David». È il medesimo concetto espresso quello stesso anno con l’Autoritratto con il Doganiere: dove Henri Rousseau è al centro di una piccola folla di artisti e intellettuali amici (in prima fila Lucio Fontana e Carla Lonzi) dalla quale brilla per la sua assenza proprio colui che firma questo paradossale Autoritratto (la stessa Lonzi, nell’intitolare l’anno dopo Autoritratto, proprio, il suo libro decisivo e «corale» faceva suo questo witz davvero «metafisico»). Una comunità che poi, ha visto Michele Dantini, si muterà nel pantheon meta-classico che da allora Paolini continua malinconicamente ad allestire.
La «confutazione del tempo» di Paolini (per parafrasare una formula del suo phare, Borges) gli detta anche la composizione di questo libro che, avverte la nota esplicitaria, remixa «passaggi tratti da precedenti interviste o pubblicazioni», così come «le illustrazioni, nella loro sequenza, corrispondono a un criterio arbitrario e personale»: prive di titoli e date, pagina dopo pagina le opere di Paolini (sino alle ultimissime, come Parole di fuoco alla collettiva Le ferite di Torino, sino al 12 ottobre curata da Spazio Taverna alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) diventano nuove opere – dove l’aggettivo, si capisce, ha un sottinteso ironico.
Anche il dogma dell’impersonalità viene ribadito. Per esempio ripetendo l’aforisma di James Whistler che tanto piaceva a Borges, «“Art happens”, l’arte succede, accade», prescinde dalla storia e «non dipende dall’artista»; mentre contro la «dissennata volontà d’esprimersi» Paolini ruba le parole di bocca a Carmelo Bene. In un’altra occasione (a Zurigo nel 2000) aveva invece anticipato, Paolini, un’agudeza a venire di Jean-Luc Nancy: «l’autore abdica, si apparta, si ritrae (proprio nel doppio senso di “tirarsi indietro” e di appartenere, di “assegnarsi” all’immagine dell’opera)». L’autoritratto è sempre un altro ritratto (L’altro ritratto s’intitolò al MART, nel 2013, la mostra curata dal filosofo), cioè il ritratto di un Altro: che sia il Doganiere, Poussin oppure un anonimo mercante arabo.
Eppure quello inscenato e performato da Paolini in quest’ultimo libro è, a ben vedere, un doppio legame. L’ultimo suo testo recita (con uno degli «appunti a capo» cui sempre più indulge): «Mi sento un altro, / cioè quello di prima». Prima, certo, c’è la Tradizione; ma la frase capovolge anche il bon mot di Rimbaud. Je est un autre proprio perché, qui, coincide col sé stesso di prima (secondo le due diverse nozioni di identità messe a fuoco da Paul Ricœur in Sé come un altro): se il dogma bandisce con orrore la centratura dell’ipse, ammette invece l’idem (già!) della continuità nel tempo del proprio riferirsi a sé stesso. Nella conversazione all’Accademia di San Luca del ’23 notava Antonella Soldaini il ricorrere sempre più frequente di immagini dell’infanzia, e Paolini ammetteva: «inoltrandomi nell’ultima stagione, sempre più mi trovo a mettere a fuoco pensieri e immagini di quel tempo, che prendono posto dove la memoria sembra spodestare l’esperienza dell’oggi». Ma anche alla bellissima mostra dell’anno prima al Museo Novecento di Firenze, Quando è il presente?, l’opera-clou era il disegno del quadrante di un orologio trasformato in vertigine hitchcockiana: ma quell’orologio cingeva il polso allo stesso individuo che disegnava quel vortice.
Sin dal titolo doppiamente deittico e illocutivo, l’uomo senza volto si presenta in scena, infatti, persino baldanzoso: Eccomi. A un certo punto del libro (non so quale autore lo abbia mai fatto!) vi riproduce persino la sua carta d’identità; e in fondo tutto il libro non è che un interrogativo circa l’identità, appunto, che il più antinarciso degli artisti, proditorio, mette al centro del proscenio. Certo, si diceva, da questa identità traspare tutta la filiera della sua etimologia; ma nondimeno è presente (eccomi qui!). Eloquente fra tutte, nel nuovo libro, la riproduzione di un’opera del ’74, Isfahan: una scena che aveva colpito Paolini per la «doppia prospettiva» che dominava quel «disegno vuoto». Ma ora la serigrafia viene fotografata col cellulare, nel suo studio, dall’artista – la cui immagine si proietta spettrale sul vetro che la protegge. Quella filigrana sottilissima, quel vetro politissimo non è più così trasparente quale si voleva un tempo. Ed è davvero una doppia prospettiva quella che attrae irresistibilmente l’autore, lo voglia o meno, all’interno della rappresentazione.
Alla fine della nota conclusiva scrive Paolini: «Mi piace pensare a un’ipotetica, virtuale sovrapposizione delle diverse immagini fino a poterne vedere una sola». Il suo Borges, alla fine, aveva dovuto arrendersi; e nell’Artefice aveva scritto di quell’artista che «nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».