Dicono che usiamo solo il dieci per cento del nostro cervello. Nel mio caso credo che il restante novanta sia occupato dai testi degli Oasis. Me ne sono resa conto in questi giorni, quando assediata dalle stories di chi li sta vedendo in tour, presa dalla nostalgia e dalla FOMO, mi sono fatta un lungo viaggio in macchina riascoltando tutti i loro dischi.

Non potevo desiderare un migliore inizio delle vacanze di questo: sedile posteriore per sorvegliare mio figlio di cinque mesi, il quale senz’altro preferirebbe che mi sedessi davanti, invece che urlargli in faccia questo karaoke della mia adolescenza. Ce ne sarà una che non canta, si chiede accigliato mentre mi esibisco non dico in Wonderwall, che la sanno anche i muri, ma in Digsy’s Dinner, che francamente sorprende anche me. Mentre sbraito canzoni minorissime dei fratelli Gallagher, mi chiedo quante lingue straniere avrei potuto imparare se non avessi occupato giga preziosi del mio cervello con il verso «I’ll pick you up at half past three, we’ll have lasagna».

Passione adolescenziale

Sono convinta che si possa dimenticare come si va in bicicletta, io credo che a me sia successo, ma d’ora in avanti avrò un nuovo detto per definire qualcosa che non si scorda mai, neanche dopo tanto tempo: è come cantare le canzoni degli Oasis. Sono passati più di 15 anni da quando le ascoltavo tutti i giorni. Ero una teenager monomaniaca, come spesso sono i teenager, e la mia vita era un flusso continuo di fisse durissime. Ero già passata dai Beatles, poi c’era stato il periodo punk.

Mentre sbucavano i gruppi della mia generazione – Libertines, Arctic Monkeys, Franz Ferdinand, Strokes e tutti quelli là – che avrei reso tassello fondamentale della mia identità, imparavo che giusto dieci anni prima due fratelli di Manchester avevano creato qualcosa di simile ma molto più in grande. In più le loro canzoni erano facilissime da suonare con la chitarra, per la quale ero piuttosto negata.

Grazie agli Oasis conobbi il mio primo amore, trovato su internet grazie a una condivisa passione per la musica inglese, anche se facevamo lo stesso liceo ed eravamo a due porte di distanza dello stesso corridoio. Champagne Supernova suonava le prime volte che facevo l’amore. Su LastFM, un proto-Spotify che collegandosi ad iTunes conteggiava i tuoi ascolti, gli Oasis troneggiavano staccando chiunque altro di parecchie ore. Insomma, erano i miei preferiti.

Li vidi in concerto ad Assago nel 2009, anni 17, io e due amiche altrettanto inscimmiate, mio padre fuori ad aspettarci per riaccompagnarci a casa a Parma (una delle altre due non si ricordava dove abitava e passammo un’ora buona a vagare nella bassa padana sommersa dalla neve). Ricordo quella serata con la tenerezza che si riserva ai momenti più felici della propria gioventù.

Un limite alla retromania

E allora perché non hai comprato i biglietti della reunion del 2025, vi starete chiedendo voi. Credetemi, ci ho provato. Ci ho provato nonostante fossi incinta quando sono andati in vendita e sapessi benissimo che quest’estate avrei avuto un bambino di cinque mesi da piazzare da qualche parte mentre io e suo padre eravamo a pogare a Wembley.

Una bella occasione per fargli prendere il suo primo aereo, mi ero detta mentre immaginavo di dover comprare un volo per Londra anche a mia suocera pur di non lasciare mio figlio ai miei amici che vivono lì, a cui affiderei un bambino molto meno che ad altri, a malapena gli lascerei una pianta per l’estate. Intanto guardavo la barra della fila digitale di questi benedetti biglietti scorrere lentissima, o forse non si muoveva affatto, impossibile dirlo con gli occhi incrociati per la stanchezza.

Dopo moltissime ore di attesa che mi hanno temprato e preparato alla delusione, sapevo che le mie opzioni sarebbero state scarse: comprare gli unici biglietti rimasti, cioè quelli con la tariffa Jeff Bezos, o starmene a casa a prendermi cura di un neonato per cui al terzo mese di gravidanza provavo già un certo risentimento.

Eppure, quando il mio turno infine è arrivato e ho declinato la gentile offerta di procurarmi i biglietti da cinquecento euro, ho provato un leggero sollievo. Io il mio l’avevo fatto, la volontà c’era, avevo dimostrato (a chi? nessuno se ne fregava a parte me) che non sarei diventata una mamma sfigata che non fa più niente. Io ero pronta a pogare, che qualcuno lo mettesse agli atti (di nuovo, non c’era nessuno a testimoniare questa mia crisi psicotica).

Ora, mentre con grande gioia faccio la mamma sfigata in riva a un lago della Slovenia dove non c’è stato bisogno di convocare mia suocera, guardo i video dei concerti degli Oasis e un po’ rosico, un po’ tiro il fiato. È tutto molto bello: i Gallagher sono invecchiati come un vino buono, sono ancora i più giusti del mondo, la folla di inglesi ubriachi che canta all’unisono è pura poesia e una parte di me vorrebbe essere lì.

Dall’altra penso alla fatica che non ho fatto, ai soldi che ho risparmiato, al concerto che ho già visto nel 2009, ai Blur che ho visto due volte perché non avranno vinto la guerra del Brit Rock (a detta loro), ma alla fine sono i più bravi. Mi sento vittima della solita nostalgia millennial: se non sono gli Oasis, sono Katie Holmes e Joshua Jackson (Joey e Pacey di Dawson’s Creek) innamorati per finta sul set di un nuovo film, che ci fanno desiderare una storia d’amore anche nella realtà, se non sono Joey e Pacey è la Polly Pocket o vattelapesca. Ogni tanto è bene darsi un limite. Ogni tanto il limite te lo dà Ticketmaster.