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In molte regioni italiane si accende il dibattito sulle “liste del presidente”, quelle civiche legate al nome di un governatore uscente o in carica. Sono uno strumento capace di attrarre elettori lontani dai partiti tradizionali, ma anche di sottrarre voti agli alleati e spostare gli equilibri interni.
Il caso più esplosivo è in Veneto: Luca Zaia, impossibilitato a ricandidarsi, vuole una lista a suo nome. Nel 2020 raccolse oltre il 44%, lasciando alla Lega e a Fratelli d’Italia percentuali ridotte e un consiglio regionale dominato dai suoi fedelissimi. Matteo Salvini la considera un valore aggiunto; Giorgia Meloni teme un presidente “commissariato” da un blocco autonomo e resiste, bloccando la scelta del candidato e la data del voto.
In Toscana, Eugenio Giani punta a una lista personale per unire l’area riformista e rafforzare la sua ricandidatura, ma il PD teme di perdere terreno. In Campania, Vincenzo De Luca valuta se ripetere l’esperimento del 2020, mentre in Puglia Michele Emiliano vuole restare in consiglio, scontrandosi con il successore designato Antonio Decaro.
Queste liste possono ampliare il consenso ma anche frammentarlo, trasformando le elezioni in partite giocate più contro gli alleati che contro gli avversari. Ed è qui che nasce il vero rischio: vincere la regione, ma uscire dalle urne con una coalizione divisa e più debole.