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20 Novembre 2023
In queste difficili settimane, travolti da quanto sta accadendo tra Israele e Gaza, abbiamo dimenticato la lotta di molte donne musulmane – iraniane e non soltanto – per sfuggire all’oppressione islamista. Per ironia della sorte, o per deliberata scelta, alle Nazioni Unite, a presiedere il Forum per i Diritti umani, è stato nominato proprio l’Iran, paese che dal marzo 1979, con l’avvento di Khomeini, ha reintrodotto la shari’a e, con essa, tutta una serie di discriminazioni contro le donne. Fatto, questo, che non ha suscitato troppo scalpore tra gli intellettuali né riempito le piazze occidentali con cori di protesta.
In realtà la condizione di inferiorità in cui si trovano a vivere moltissime donne nei paesi islamici non dipende, come semplicisticamente si potrebbe pensare, da quanto affermato nel Corano, bensì dalle strutture sociali che hanno istituzionalizzato la negazione del femminile. Sarebbe come voler incolpare la Bibbia per la Santa Inquisizione, per il processo a Galileo o per l’usanza medievale di promettere in sposa le bambine a 7 anni e farle convolare a nozze a 12. Credo sia scorretto chiedere all’islam ciò che non è mai stato chiesto ad altre fedi e cioè che le interpretazioni del testo non fossero delegate a giuristi i quali, come consuetudine, sono sempre stati uomini e hanno spiegato il messaggio coranico con mentalità maschile. Tuttavia la questione della donna è inscindibile da quella dell’islam che, a differenza degli altri monoteismi, non ha vissuto al suo interno movimenti di riforma. Quando poi questo viene declinato come islamismo, allora diventa un grave problema.
Leila Ahmed è stata la prima a mettere in discussione la manipolazione maschilista del Corano attraverso un’indagine sulla strumentalizzazione politica dell’islam e non è la sola. “E’ stato il Califfo ‘Umar (nel VII sec. d. C.) a proibire che le donne fossero alla guida della comunità” ci dice Sherin Khankan, guida spirituale della moschea progressista di Copenhagen, aggiungendo che durante la vita del Profeta “era risaputo che Aisha – la sua ultima moglie – fosse solita guidare la preghiera dei fedeli e facesse da consulente per le questioni teologiche e spirituali più complesse”.
Seppure poco conosciuto, uno degli aspetti più dirompenti nei confronti dell’oppressione delle donne è rappresentato dal fenomeno del femminismo islamico. Si tratta di donne coraggiose che lavorano alla decostruzione e contestualizzazione – anche attraverso una corretta traduzione – di quei versetti coranici che paiono indicare l’inferiorità della donna. D’altra parte – come affermano Amina Wadud e Lubna Ahmad al-Hussein – se uno degli attributi di Dio è la giustizia, è difficile pensare che Egli possa aver suggerito comportamenti che vanno in opposta direzione, come si potrebbe superficialmente evincere dalla letteralità del testo. Altro discorso riguarda gli hadith, cioè quei detti profetici che fanno riferimento a resoconti circa i detti e le azioni di Maometto, ma che di fatto sono opera di posteriore stesura e in diversi casi privi di qualsiasi fondamento di autenticità. Lubna Ahmad al-Hussein, ad esempio, è sudanese e, come molte altre donne, lavora per mettere in guardia proprio dalle prevaricazioni derivanti dagli hadith. Arrestata per aver indossato dei pantaloni e condannata alla fustigazione, nel suo volume Maledetta. La mia battaglia contro il falso islam che odia le donne afferma: “Se si fosse trovato in Iran, un’altra repubblica islamica, questo stesso giudice avrebbe decretato che Allah obbliga le donne a portare i pantaloni per meglio nascondersi agli sguardi degli uomini. Shari’a, dicono, ovvero legge divina. Non è ridicolizzare Allah il fargli promulgare leggi contraddittorie a seconda delle aree geografiche?”. Per al-Hussein il problema principale sono i governi islamisti, ovvero quelli che piegano l’islam alla politica. Penso, in primis, a quello dei mullah in Iran o dei Talebani in Afghanistan o del Daesh, le cui prime vittime sono le donne islamiche. Penso anche ai Territori palestinesi, soprattutto alla Striscia di Gaza retta da Hamas.
Gaza e Cisgiordania
Le elezioni politiche nazionali palestinesi del 2006 (le ultime che sono state effettuate) hanno visto entrare nel Consiglio legislativo palestinese sei donne di Hamas, otto di Fatah e tre di partiti politici differenti. L’impatto della partecipazione delle donne nell’arena politica palestinese va per certo considerato alla luce di quanto le rappresentanti del mondo femminile possano/intendano fare per garantire più ampi diritti alle donne nei Territori. Diritti che, nel caso delle attiviste di Hamas che auspicano una più ampia applicazione della shari’a, vengono disattesi quando non confusi con i doveri loro imposti dalla società patriarcale. Asma Mohamed Abdel Halim, attivista per i diritti delle donne, già nel 2005 metteva in guardia da questo tipo di confusione affermando che i doveri delle donne vengono spacciati come i loro “diritti”. Ad esempio una donna “ha il diritto di essere confinata entro le mura domestiche, una donna ha il diritto di essere velata”. Le leggi palestinesi – perché sì, i Territori sono governati da palestinesi e non da israeliani – si rifanno alla legge giordana del 1976 e sono fortemente discriminatorie nei confronti delle donne, dove il ruolo femminile è sanzionato come inferiore rispetto allo status maschile. Tuttavia nessuna proposta, da parte delle donne palestinesi dei Territori elette al Consiglio legislativo, è parsa voler andare nella direzione di una riformulazione legislativa più vicina agli standard delle diverse convenzioni internazionali per i diritti umani, viste anzi come importazioni occidentali contrarie all’islam.
Contemporaneamente, secondo l’Istituto centrale di statistica palestinese, il 37 per cento delle donne palestinesi sposate e il 30 per cento delle ragazze ancora nubili ha subito violenza nell’ambito famigliare, anche se la stima appare persino riduttiva nei confronti della realtà in quanto le donne dei Territori molto raramente riportano gli abusi subiti, non essendoci da un lato alcuna possibilità legale di venire protette e poiché, d’altro lato, l’onore della famiglia è considerato più importante delle violenze stesse. I delitti d’onore, particolarmente nella Striscia di Gaza, sono a questo proposito in preoccupante aumento. Migliore è la situazione in Cisgiordania. Qui, infatti, il ministero per gli Affari sociali dell’Autorità palestinese ha da anni predisposto alcuni “rifugi” per le donne vittime di violenza. Tuttavia non sempre gli scopi che questo si prefigge (come ad esempio quello di favorire il matrimonio tra l’uomo che ha causato la violenza e la donna che l’ha subita) rappresentano, seppur raggiungendo l’obiettivo di salvare la vittima da un eventuale delitto d’onore famigliare, la migliore risposta per la donna stessa. La riabilitazione, la riunificazione famigliare e il matrimonio sono infatti le mete principali verso cui il ministero tende con il suo intervento.
Si può comprendere pertanto come la situazione per le donne non sia ideale: al di là della guerra in corso, che ha dimostrato lo spregio di Hamas nei confronti delle donne d’Israele, anche la situazione femminile palestinese non fa che peggiorare.
Nelle elezioni amministrative, per il rinnovo dei consigli municipali di Gaza e della Cisgiordania, dell’ottobre 2016 le donne candidate nelle varie liste indipendenti erano pressoché dei fantasmi la cui identificazione era possibile solo tramite diciture come “moglie di…” o “sorella di…”. Donne prive di nomi, senza identità alcuna: le loro foto non sono state esposte neppure sui manifesti elettorali. Le uniche foto di donne degne e rispettate, appese sui muri delle città palestinesi, sono quelle delle martiri che vengono anche elogiate nelle scuole di ogni ordine e grado nella giornata internazionale delle donne. Il martirio appare una delle poche possibilità, per le donne di Gaza, di ottenere un riconoscimento pari a quello degli uomini.
Era il 27 gennaio 2002, quando Wafa Idris si fece esplodere a Gerusalemme. Aveva ventisette anni ed era divorziata: il marito l’aveva lasciata dopo circa nove anni di matrimonio durante i quali non era riuscita a rimanere incinta. Così aveva deciso di diventare shahida, una martire per il bene e l’orgoglio del suo popolo. Dopo di lei tante altre. Hanadi Garedat, ad esempio, è una martire atipica: il suo attentato suicida viene messo in atto ad Haifa nell’ottobre 2003, in un ristorante affollato. Hanadi era una avvocatessa che, all’età di 27 anni, non si era ancora sposata. Proveniva dall’area di Jenin, ma per via del suo status inconsueto di donna libera, era sottoposta a continui controlli da parte della famiglia, soprattutto per verificare la sua condotta sessuale. Diventare una shahida l’ha in qualche modo salvata dall’oppressione e le ha conferito il titolo di “Sposa di Haifa”. Dunque donne divorziate o donne sole, ma anche giovani ragazze sedotte che – con la loro condotta “immorale” – hanno disonorato la famiglia. Questo è il caso di Ayat al-Ahras, 18 anni, e di Andleeb Takatka, 21, che si sono immolate nel marzo 2002 e nell’aprile 2002 e, con la loro morte da martiri, hanno riportato onore su loro stesse e sulle loro famiglie. Nel gennaio 2004 è stata la volta di Reem Reyashi, 21 anni, due figli: uno di 18 mesi e l’altro di 3 anni. Le fonti palestinesi affermano che il suo martirio è stato compiuto in risposta a un’incursione dell’esercito israeliano in Cisgiordania che aveva causato numerose vittime. Si verrà poi a sapere che il marito – un ufficiale di Hamas – aveva scoperto un presunto tradimento della giovane moglie e le aveva offerto il martirio piuttosto che la morte da adultera. L’elenco è lungo e prosegue sino all’attualità.
Nel 2016 l’Agenzia Stampa Nena si è chiesta cosa spingesse, ad esempio, le donne palestinesi ad attaccare i checkpoint israeliani rischiando la morte. Tra le risposte a questa riflessione emergeva la possibilità che le donne che si recavano ai checkpoint minacciando i soldati con un coltello volessero semplicemente essere arrestate per riuscire, in tal modo, a fuggire dai problemi che avevano in casa. O addirittura che cercassero la morte. “In una società tradizionale e religiosa che non vede di buon occhio il suicidio” scriveva la redazione di Nena “è possibile che la morte per mano di un soldato appaia come una valida via d’uscita. Se la morte è una via d’uscita, significa che le donne non sanno come e a chi chiedere aiuto”.
Hamas e le donne
Durante l’attacco di Hamas il 7 ottobre in Israele, si è potuto notare come il disprezzo nei confronti delle donne si sia trasformato in ferocia. Stuprate, mutilate dei seni, sventrate, fatte a pezzi: i terroristi hanno sfogato sulle donne e sulle ragazze ebree d’Israele tutta la loro bestialità. E questo nonostante nel Corano ebrei e cristiani siano indicati come ahl al-kitab (Genti del Libro), ovvero comunità cui è stata inviata una Rivelazione autentica con valenza salvifica o anche come banu Isra’il (Figli d’Israele). Ai musulmani viene addirittura concessa la possibilità di nutrirsi dei pasti preparati da ebrei e cristiani, o di sposare donne ebree o cristiane senza pretendere la loro conversione. D’altra parte dovrebbe essere noto che una delle spose di Maometto, Safiyya, era ebrea. Tuttavia pochi sanno che, quando questa morì, aveva lasciato in eredità un terzo del suo patrimonio al nipote. Dal momento che il nipote era ebreo, era sorta una disputa: c’era chi sosteneva che l’appartenenza alla fede ebraica del nipote potesse annullare il lascito e chi invece riteneva il contrario. A dirimerla venne chiamata Aisha – non un uomo! – la quale mandò a dire che la volontà di Safiyya doveva essere onorata.
L’islam politico però è un’altra cosa. Nasce con i Fratelli musulmani di Hasan al-Banna e prosegue con la radicalizzazione di Sayyid Qutb per giungere, passando attraverso Al-Qaida, ad inglobare l’islamonazionalismo di Hamas e di Hezbollah. Talvolta oltrepassa i confini e, attraverso le migrazioni, giunge in Europa o negli Usa dove restiamo stupiti per le ondate di antisemitismo che fanno tremare le piazze. Il jihad tuttavia non necessita di stipare barconi, viaggia in rete e fa proseliti. Basti pensare al sermone comparso online due mesi fa, con cui un imam della moschea di Green Lane di Birmingham spiegava come lapidare una donna.
Il disprezzo per le donne da parte di Hamas è tutto in un video: quello che il 7 ottobre riprende il trionfale ingresso di un camioncino a Gaza con il corpo di una ragazza ebrea tedesca, Shani Louk, seminuda e profondamente ferita alla testa, forse già deceduta, mostrata come un trofeo di caccia, mentre altri uomini e ragazzi corrono applaudendo e sputando sul suo corpo. E’ plausibile questo con la lotta palestinese che rivendica un territorio dal “fiume al mare”? No, neppure la rivendicazione del “non diritto” di Israele ad esistere può rendere plausibili le atrocità compiute soprattutto sui corpi delle donne il 7 ottobre. E’ di queste ore la notizia che sono stati riconosciuti i resti di Vivian Silver, uccisa nella sua casa al kibbutz Beeri. Ci sono voluti giorni e perizie per darle un volto e un nome. Era una pacifista, tra le promotrici dell’organizzazione Women Wage Peace: le donne per la pace. Vivian credeva nella pace e aveva amici nella Striscia di Gaza, non poteva non essere nota, ma è stata ugualmente massacrata.
Quale futuro si prospetta per le donne di Gaza se Hamas non verrà sconfitto? Per certo il diritto di morire in battaglia. Nell’art. 12 dello statuto di Hamas si afferma infatti che “le donne hanno il diritto di uscire di casa e combattere il nemico anche senza il permesso del marito”. Lo stesso sceicco Hassan Yousef, portavoce di Hamas in Cisgiordania, ha spiegato che è un diritto delle donne combattere contro l’occupazione. Negli art. 17 e 18 si precisa poi quale sia il compito delle donne nella società: far nascere e addestrare le future generazioni al jihad. Per il resto, Hamas dichiara di voler “fortificare la donna con l’educazione islamica, renderla consapevole dei suoi diritti religiosi e confermare la sua indipendenza che si basa sulla purezza, sulla modestia e sull’impegno”. Non per niente nei negozi della talebanizzata Gaza è vietato mostrare in vetrina la lingerie femminile e alle donne è vietato fumare il narghilè o viaggiare senza la presenza di un tutore maschile. La shari’a, con le sue regole, ha reso Gaza sempre più simile a Kabul o a Teheran e le donne stanno perdendo, uno dopo l’altro, ogni diritto. L’odio nei confronti d’Israele è veicolato dal disprezzo dell’altro da sé: che siano le comunità Lgbt, gli ebrei o le donne. Se poi le donne sono ebree e cittadine d’Israele allora si scatena la bestialità cui abbiamo assistito il 7 ottobre.
Devono averlo ben compreso le donne iraniane che hanno scelto di schierarsi dalla parte d’Israele e contro Hamas. Per la vita, per la libertà, per le donne.