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A quasi due anni dall’inizio della guerra, Hamas non è stato eliminato. Nonostante le perdite enormi – decine di migliaia di miliziani uccisi e una catena di comando più volte decapitata – il gruppo resta radicato a Gaza. Gestisce mercati, distribuisce beni, controlla clan locali e mantiene un esercito stimato ancora tra i 20 e i 25 mila uomini, organizzati in piccole cellule. Per molti abitanti, lavorare per Hamas significa sopravvivere: senza il gruppo islamista, che governa la Striscia dal 2006, non ci sarebbe cibo né lavoro.
Ma la forza di Hamas si spiega anche con il contesto. Secondo varie fonti, gran parte degli aiuti umanitari destinati ai civili finisce intercettata e rivenduta, alimentando le casse del movimento e il controllo sul territorio. Al tempo stesso, i finanziamenti dall’estero, soprattutto da Iran e Qatar, hanno garantito entrate miliardarie negli anni, permettendo al gruppo di pagare stipendi a decine di migliaia di dipendenti pubblici e mantenere un apparato militare sempre attivo.
Israele, dal canto suo, sta portando avanti una strategia di logoramento totale. L’esercito ha invaso Gaza City con carri armati e mezzi pesanti, radendo al suolo quartieri e infrastrutture. Nella zona di Zeitoun sono state distrutte centinaia di palazzine, mentre migliaia di sfollati vengono spinti sempre più a sud. I bombardamenti non risparmiano le tende dei rifugiati né le aree designate come zone sicure: questo rende quasi impossibile qualsiasi ricollocamento della popolazione. Le Nazioni Unite denunciano che la popolazione civile ha accesso a quantità di aiuti ben al di sotto del minimo necessario per sopravvivere.
La pressione di Israele non si limita alla guerra militare. Sul tavolo ci sono le trattative per una tregua: Tel Aviv chiede la liberazione immediata di tutti gli ostaggi e il disarmo di Hamas. Alcuni mediatori arabi propongono che le armi non vengano consegnate a Israele ma all’Egitto, che le terrebbe in custodia. Per ora però il governo israeliano resta fermo su posizioni molto rigide, e non mancano critiche interne: diverse famiglie di ostaggi accusano Netanyahu di non voler davvero un accordo, preferendo proseguire l’occupazione e la colonizzazione della Striscia.
La società israeliana stessa è divisa. Una parte dell’opinione pubblica chiede di fermare la guerra e salvare i prigionieri, un’altra spinge per continuare l’offensiva anche a costo di sacrificare gli ostaggi. Nel governo emergono contrasti sull’uso dei fondi pubblici per la gestione degli aiuti a Gaza: per alcuni ministri, sostenere la popolazione civile serve a indebolire Hamas; per altri, è solo un modo indiretto per favorire il nemico.
Il risultato è un conflitto che non accenna a fermarsi. Hamas resiste, nonostante le perdite, e continua a presentarsi come punto di riferimento obbligato per gran parte della popolazione. Israele avanza, distruggendo intere città e spostando milioni di persone, ma senza ancora ottenere l’obiettivo dichiarato: eliminare Hamas.