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Marco Ventura
«Il desiderio di libertà è una forza inarrestabile racchiusa negli esseri umani». Scrive così il Dalai Lama, simbolo mondiale di quella forza e di ogni lotta in nome di essa contro l’oppressione. Dal 1950, quando adolescente fu proclamato Dalai Lama mentre le truppe cinesi occupavano il suo Tibet, e dal 1959, quando si rifugiò nel nord dell’India dove è poi vissuto, fino a oggi, quasi novantenne (è del 6 luglio ’35), la sua resistenza in nome del popolo tibetano incarna la convinzione che «nessun regime totalitario può durare per sempre». Una voce per chi non ha voce è il titolo eloquente del nuovo libro, pubblicato in Italia da Harper Collins tradotto da Francesca Pe’ e curato da Thupten Jinpa, interprete in inglese del Dalai Lama.
Le duecento pagine del testo raccontano Oltre settant’anni di lotta per la mia terra e il mio popolo, questo il sottotitolo, visti da colui che anche dopo la rinuncia al potere esecutivo nel 2001 e il ritiro completo da ogni funzione di governo nel 2011, resta il leader tanto dei tibetani in esilio quanto di quelli che vivono sul «tetto del mondo». Altre cento pagine di documenti, note e bibliografia illustrano ulteriormente il dramma della regione e della sua gente. Ne risulta un viaggio lungo la vicenda storica, ma anche un itinerario di senso: quanto più il lettore si immerge nelle circostanze di tempo e spazio, infatti, tanto più si sente interrogato dalle domande fondamentali sull’uomo, sulla storia, sulla sofferenza, che trascendono quelle stesse circostanze.
L’invasione del 1950
Diciassette anni prima dell’invasione cinese, nel 1933, il tredicesimo Dalai Lama, predecessore dell’attuale, formula una fosca profezia circa il futuro del Tibet, allora di fatto indipendente da circa un ventennio: «Dobbiamo guardarci dai barbari rossi comunisti, che seminano terrore e distruzione ovunque». Le notizie dalla Mongolia legittimano l’allarme: «Hanno depredato e distrutto i monasteri, costringendo i monaci ad arruolarsi nelle loro armate uccidendo su due piedi chi si rifiutava, hanno annientato la religione in tutti i luoghi in cui l’hanno incontrata».
Segue un appello accorato: «Finché la forza della pace e della felicità è con noi, finché il potere di fare qualcosa per questa situazione è ancora nelle nostre mani, dobbiamo compiere ogni sforzo possibile per proteggerci dalla catastrofe imminente».
L’allarme cadde nel vuoto. Come scrive ora il successore, «i reggenti e la classe dirigente del Tibet non colsero l’urgenza e la serietà» di quell’avvertimento. Le truppe di Mao Zedong varcarono il confine il 6 ottobre 1950, l’anno 2077 del calendario tibetano. Ogni resistenza alla politica di annientamento culturale e religioso fu repressa dal governo cinese mediante il ricorso sistematico alla violenza più brutale. Una commissione internazionale di giuristi riferì nel 1959 di «sterilizzazioni forzate, crocifissioni, vivisezioni, persone sventrate, smembrate, decapitate, bruciate, picchiate a morte, sepolte vive, trascinate da cavalli al galoppo, appese a testa in giù e altri orrori».
La colonizzazione cinese
In fasi diverse, con metodi diversi, il progetto di assimilazione forzata non è mai venuto meno. Il Dalai Lama sintetizza in proposito quanto vale per il Tibet come per altre regioni della Cina: «L’imposizione di una nazione unica e cinese a molteplici nazionalità, tra cui quella tibetana, ognuna distinta per lingua, cultura, storia e popolo (il quale non si era mai considerato cinese), ha dato vita a uno Stato moderno intrinsecamente instabile, con un rischio cronico di tensioni etniche che richiede un continuo e brutale soggiogamento colonialista da parte di Pechino». L’autore denuncia in proposito una «politica di imperialismo colonialista nei confronti di Tibet, Mongolia (intesa come Mongolia interna, inglobata nei confini della Repubblica Popolare, ndr) e Turkestan orientale (lo Xinjiang della minoranza uigura, che è musulmana e turcofona, ndr), paradossalmente imbevuta di feroce retorica anticolonialista».
È articolato, l’atto d’accusa del Dalai Lama, come è articolato il quadro degli strumenti impiegati dal governo cinese. Si parla in proposito di genocidio, anche di genocidio culturale, di istruzione etnica mirata a sradicare dai bambini tibetani ogni traccia della lingua e della cultura del Paese, e ancora di persecuzione di monaci, chiusura di monasteri e distruzione del loro patrimonio, di migrazioni di cinesi di etnia han (l’etnia maggioritaria della Repubblica Popolare, ndr) e di distruzione dell’ambiente naturale. Sono cambiati i tempi, dunque, ma non è cambiato il progetto, tanto da spingere l’autore ad affermare che le politiche repressive dei tempi di Mao si rinnovano oggi grazie alle «modernissime tecnologie digitali di sorveglianza e controllo». La Cina comunista, conclude l’autore, rimane «agli occhi dei tibetani sul campo una potenza di occupazione straniera, indesiderata e oppressiva».
Il leader del Tibet
«Il Dalai Lama è un lupo travestito da monaco, un diavolo con il volto di un uomo ma il cuore di una bestia», dichiara il 18 marzo 2008 il capo del Partito comunista in Tibet che aggiunge: «Oggi siamo impegnati in una feroce battaglia all’ultimo sangue con la cricca del Dalai Lama, una battaglia letale tra noi e il nemico». Le parole, citate nel volume, testimoniano la retorica virulenta di cui il Dalai Lama è fatto oggetto da parte delle autorità cinesi. Incarnazione dell’arretratezza feudale e superstiziosa da cui Pechino ha liberato i tibetani, egli è il separatista anti-cinese che mira a dividere la madrepatria. Come si legge in una dichiarazione del Comitato centrale del Partito comunista nel 1994, l’opposizione tibetana è un serpente e «come dice il proverbio, per uccidere il serpente bisogna prima mozzargli la testa». Negli anni Cinquanta la dirigenza cinese sperava ancora di arruolare alla causa il giovanissimo Dalai Lama. Nei sei mesi trascorsi in Cina tra il settembre 1954 e il marzo dell’anno successivo, furono svariati gli incontri con lo stesso Mao. Il vero intento del Grande Timoniere si rivela nell’ultimo di essi. Mao elogia la «mente scientifica» del giovane monaco, «la mente di un vero rivoluzionario», e gli insegna che «la religione è veleno». «Quelle parole mi turbarono e cercai di nasconderlo piegandomi in avanti come per scrivere qualcosa», ricorda oggi il Dalai Lama: «Fu allora che, nonostante tutti gli accenni di dialogo positivo, capii che Mao avrebbe distrutto il Buddhadharma».
Il momento di fuggire dal Tibet occupato giunse dopo quattro anni, nelle ore concitate in cui le truppe cinesi schiacciavano la grande protesta popolare del 1959. Nel 1956 il maresciallo He Long, vice del primo ministro cinese Zhou Enlai, aveva tentato di dissuadere il Dalai Lama dal rifugiarsi in India: «Il leone delle nevi sembra maestoso quando rimane sulle nevi, ma se scende nelle pianure lo trattano come un cane», gli aveva detto. Settant’anni di esilio hanno provato il contrario. La statura internazionale del Dalai Lama è cresciuta fino all’attribuzione del premio Nobel per la pace nel 1989, dopo la sanguinosa repressione di una ribellione in Tibet (soprattutto marzo 1988) e il massacro di piazza Tienanmen (4 giugno 1989), e ha continuato a crescere anche in seguito. Invece per il governo cinese, come reiterato dalla portavoce del ministro degli Esteri il 10 marzo scorso in merito alle anticipazioni del nuovo libro, il Dalai Lama «non è una mera figura religiosa, ma un esiliato politico impegnato a condurre attività separatiste anti-cinesi con il pretesto della religione».
L’approccio della Via di Mezzo
«C’è un vecchio proverbio tibetano — scrive il Dalai Lama — che coglie benissimo l’essenza dei rapporti tra tibetani e cinesi: i tibetani si fanno tradire dalle speranze, i cinesi dai sospetti». Invano i tibetani hanno rinunciato alla rivendicazione della formale indipendenza cui ritengono di avere diritto e si sono limitati alla richiesta di una reale autonomia attraverso cui proteggere l’unicità del loro popolo con la sua lingua, la sua cultura e la sua eredità spirituale. Il Dalai Lama perviene a tale approccio, detto della Via di Mezzo, nella fase finale della Rivoluzione culturale, verso la metà degli anni Settanta, e lo presenta al governo cinese, dopo la morte di Mao nel 1976, nella stagione di aperture che si avvia sotto Deng Xiaoping. I negoziati si protraggono senza risultati tangibili tra il 1979 e il 1989, quando il bagno di sangue che mette fine alle proteste di piazza Tienanmen interrompe il dialogo. Medesimo l’esito del secondo periodo più significativo di discussioni, tra 2002 e 2010. Il Dalai Lama precisa nel libro che dal 2010 non vi sono più stati contatti formali tra i suoi rappresentanti e il governo cinese e che nel 2019 sono cessati anche i contatti informali. Egli dubita che ci sia mai stata una sincera volontà di giungere a un accordo da parte di autorità cinesi mosse in fondo solo da necessità tattiche, come al tempo del negoziato su Hong Kong di fine anni Settanta e dell’Olimpiade del 2008. È sintomatico, nota il Dalai Lama, che agli sforzi della sua parte di presentarsi con «uno scopo chiaro e una gerarchia riconoscibile» sia corrisposta la più grande opacità da parte cinese, tanto da rendere sempre «difficile capire con chi avessimo a che fare esattamente».
Il percorso spirituale
Nel corso di uno dei loro incontri davanti a una tazza di tè, un monaco di alto rango rifugiatosi in India dopo 18 anni nelle prigioni cinesi, disse al Dalai Lama del vero pericolo percepito in carcere. «Un pericolo di che tipo?», chiese il Dalai Lama, immaginando si trattasse del rischio di morire. «Il pericolo di perdere la compassione verso i cinesi», rispose il monaco. Se tibetani e cinesi condividono la medesima eredità del buddhismo mahayana, quella eredità pervade anche la lotta di un uomo la cui azione pubblica è politica e spirituale senza soluzione di continuità.
Il libro sottolinea i vari passi nella vita monastica, fin dalla precoce proclamazione ufficiale come Dalai Lama fino al completamento dei «dibattiti» che nel 1959 sanciscono la sua piena preparazione. La tradizione che rappresenta e la spiritualità che incarna, alimentate dalla conoscenza dei maestri del buddhismo, innervano l’esercizio dell’autorità. Il Dalai Lama che ricorre alle divinazioni e agli oracoli per ispirarsi nell’ora della scelta è il medesimo che dà ai tibetani in patria e in esilio una costituzione democratica nel 1963, che riforma profondamente, dalla sede indiana di Dharamsala, le istituzioni di governo della sua comunità, che non si stanca di richiamare alla non violenza, che davanti delle auto-immolazioni, cui sono ricorsi dal 2009 più di centosessanta tra monaci, monache e laici, quasi tutti giovani, esprime dolore, ma empatia con il «profondo senso di impotenza» che conduce a una tale forma estrema di protesta. Il capitolo del libro dedicato alle Pratiche utili per affrontare la sofferenza non è dunque una parentesi nella vicenda storica, ma il cerchio in cui è inscritto ogni suo passaggio.
Il prossimo Dalai Lama
Dal 1995, da quando aveva sei anni, le autorità cinesi tengono prigioniero Gedhun Choekyi Nyima. Identificandolo al tempo pubblicamente come Panchen Lama, la seconda autorità del buddhismo tibetano, il Dalai Lama vanificò il tentativo di Pechino di imporre un lama governativo (le autorità comuniste hanno in effetti indicato qualche mese dopo, nel novembre 1995, un loro Panchen Lama, Gyancain Norbu, leale al regime). È forte il timore che il tentativo si ripeta alla morte del Dalai Lama e che risulti impedita la pratica tradizionale con cui nel 1950 fu riconosciuto lo stesso Tenzin Gyatso, nato Lhamo Dondrub, l’attuale Dalai Lama. Come ricorda nel libro, fin dagli anni Sessanta egli ha rinviato ai tibetani la decisione, quando morirà, di mantenere o meno l’istituzione del Dalai Lama. Ricorda anche di aver dichiarato già nel 2011 «totalmente inappropriato» che il governo comunista cinese si intrometta nel sistema di reincarnazione dei lama. Si precisa ora al riguardo che il prossimo Dalai Lama «nascerà nel mondo libero», per «essere la voce della compassione universale, il capo spirituale del buddhismo tibetano e il simbolo del Tibet e delle aspirazioni del suo popolo».
L’appello che chiude il libro fonda sulla fiducia nella sconfitta del totalitarismo, «sistema instabile per natura», l’invito a vedere «l’umanità anche nei nostri oppressori, perché alla fine sarà con la loro umanità che giungeremo a un accordo». Se niente è «immune alla legge dell’impermanenza», servono «pazienza, determinazione incrollabile, unità e coraggio» ai tibetani nella loro lotta e all’umanità intera nella sua interdipendenza. Come dicono lassù, sul tetto del mondo, «se cadi nove volte, rialzati nove volte».
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