
FRANCESCO IL DISARMATO
23 Aprile 2025
Ci vuole ora un papato che non si faccia dettare gli esercizi spirituali dal mondo, ma l’opposto
23 Aprile 2025I conservatori divisi e incerti. Non è tempo di rivincita
I
Anti-bergogliani impreparati a un’alternativa. Punto chiave: ricostruire il governo della Chiesa
di Massimo Franco
Gli oppositori non hanno un candidato forte e la loro posizione potrebbe rivelarsi un boomerang. La necessità di rinnovare e rendere efficiente la Curia
Di colpo, Casa Santa Marta è diventata un guscio vuoto. La scomparsa del suo inquilino eccellente per dodici anni la sta per restituire alla funzione originale di hotel per i cardinali che partecipano al Conclave, o di albergo per clienti graditi al Vaticano. Ma i sigilli messi all’appartamento numero 201, quello abitato da papa Francesco, non sono solo il segno della sua scomparsa. Sigillano anche la fine di un’epoca e di un’anomalia. Anzi, di una doppia anomalia: quella dell’abbandono dei Palazzi apostolici da parte di un Pontefice, e quella della rinuncia di Benedetto XVI e del suo autoconfinamento nel Monastero Mater Ecclesiae, a quattrocento metri di distanza da Santa Marta, su nei Giardini Vaticani, fino alla morte il 31 dicembre del 2022.
Ma questo non vuol dire la rivincita della Curia, sfibrata e umiliata dalla «corte parallela» di Francesco. Né la nemesi di quel fronte rumoroso e minoritario degli avversari dichiarati della cosiddetta «rivoluzione bergogliana»: espressione a dir poco ambigua e controversa. Più che uno schieramento compatto e deciso a rivalersi, la filiera dei «feriti» del Papa argentino, come li definì l’ex cardinale dell’ortodossia Gerhard Muller, è un piccolo esercito guardingo e incerto, in attesa di decidere le prossime mosse. Perché nessuno sa come andrà a finire il prossimo Conclave. E nessuno sa quale tasso di bergoglismo sopravviverà. I tradizionalisti che hanno atteso invano una rinuncia, ora che Francesco non c’è più si ritrovano a dover gestire non più una fase di paradossale resistenza, ma a costruire un’alternativa.
E si scoprono orfani di Francesco quasi quanto i suoi sostenitori. Senza un candidato forte da presentare al Conclave. E divisi al proprio interno. L’episcopato statunitense è in prima fila, con la potenza economica che ha alle spalle. Nessuno dimentica il Red Hat Report, la schedatura dei cardinali del Sacro Collegio sul piano morale, decisa nel 2018 dal Napa Institute: un’istituzione californiana finanziata da ricchi uomini d’affari cattolici e conservatori per mettere sotto pressione gli esponenti più vicini a Bergoglio. Oggi quel «Rapporto sulle berrette rosse» appare ingiallito, ma rimane sullo sfondo. E può contare sull’appoggio di una piccola ma agguerrita schiera di alti prelati che vogliono archiviare i dodici anni di Francesco. E non disdegnano il trumpismo, se non fosse per la politica spietata contro gli immigrati. D’altronde, il 56 per cento dei cattolici Usa hanno votato per Donald Trump.
Ma è difficile capire se e quale incidenza queste forze avranno. Potrebbero rivelarsi anche un boomerang per le aspettative del mondo conservatore. L’unica quasi certezza è che non ci sarà un altro Papa che abiterà a Casa Santa Marta: anche se non è scontato neppure un ritorno in quei palazzi descritti per anni come infidi, e percorsi da intrighi mefitici. Quel ritorno dovrebbe essere spiegato bene. Al successore di Francesco e ai suoi collaboratori toccherebbe il compito arduo di far capire al mondo che sarebbe un ritorno alla normalità e non una restaurazione. L’unica cosa sulla quale, tuttavia, in Vaticano, in ciò che resta della Curia ma anche in molti episcopati, sembra esistere una qualche concordia, è l’esigenza di ricostruire un governo della Chiesa; di ricentrarlo su Roma e sulle grandi diocesi; di sostenerlo con una struttura curiale rinnovata, ma in grado di funzionare.
Ricostruzione, non restaurazione. Chi conosce bene papi e potere vaticani, tende a indicare una bussola con tre punti cardinali: la certezza dottrinale, dopo la creatività visionaria di Francesco; l’unità del cattolicesimo, dispersa in mille rivoli di diversità che né Bergoglio, né prima di lui Benedetto XVI sono riusciti a ricondurre in un unico alveo. E il governo del Vaticano. È l’ultimo punto, eppure nelle priorità non risulta minore rispetto ai precedenti. L’idea che si perpetui una dicotomia tra il papato e la sua burocrazia di governo è qualcosa che ha stravolto i rapporti interni; creato duplicazioni, sovrapposizioni e spesso contrasti. E ha dato fiato a quanti si sono serviti di queste contraddizioni per frenare o sabotare i tentativi di riforma di Bergoglio, oppure per tentare di usarlo per le proprie personali carriere e rese dei conti interne.
Il risultato è quello di registrare una minoranza di bergogliani tetragoni, e di nostalgici del passato altrettanto tetragoni, che hanno ridotto il dibattito a uno scontro sterile. Mentre intorno è cresciuto un grande, imbarazzato silenzio nel quale si mescolano le posizioni più diverse. E gli oppositori del papato appena finito trovano sponde anche tra i suoi sostenitori più avvertiti. Il punto più critico, sul quale detrattori di Francesco e ammiratori sperano di trovare un punto di incontro in Conclave, è il ruolo della Segreteria di Stato. In questi dodici anni, il cuore della catena di comando è stato spogliato di gran parte dei suoi poteri. Poteri economici, col trasferimento di gran parte dei fondi a disposizione al Dicastero dell’Economia. Poteri decisionali, con un Pontefice incline a fare da solo.
E perfino poteri diplomatici, trasferendo tentativi di mediazione a strutture parallele che, con esiti alterni, hanno sostituito i nunzi e lo stesso Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin.
Basti pensare alle missioni di pace sull’Ucraina dopo l’invasione russa, affidate al presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi. L’identificazione tra Curia e conservatorismo ha prodotto un cortocircuito che non sarà possibile aggiustare rapidamente. E lo scandalo del palazzo di Londra e il controverso processo che ne è seguito, con il cardinale Angelo Becciu «degradato», imputato e poi condannato, ha contribuito a un’immagine distorta e manichea del Vaticano e della sua forma di governo tradizionale. Eppure, come non ha funzionato il «papato della Curia» di Benedetto XVI, costretto alla rinuncia, anche il bilancio del «papato anticuriale» di Francesco lascia dietro di sé molti interrogativi irrisolti.