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7 Agosto 2022Mimmo Cuticchio, il più famoso “ contastorie” della tradizione popolare siciliana, porta in scena una versione molto particolare dell’Iliade: “ Per me resta una storia contemporanea”
di Mario Di Caro
Per uno come lui abituato a raccontare duelli e battaglie l’Iliade è un invito a nozze. Mimmo Cuticchio, puparo e contastorie palermitano cresciuto a pane e racconti epici, dopo tanto Ariosto, Shakespeare, Virgilio e Dante, il confronto con Omero in un grande scenario prima o poi doveva arrivare. E così, dopo il debutto a Palermo, adesso porta al teatro antico di Segesta, l’11 e 12 agosto,L’ira di Achille, un viaggio nell’Iliade per pupi e “cunto” che fa vivere il clangore delle spade e lo scalpiccio dei cavalli sotto le mura di Troia. Ed è tutto un “firriare”, roteare, di lance e spade al ritmo del piede che percuote la pedana, secondo una narrazione così antica e così popolare capace di porgere il poema a tutti.
Cuticchio, per un contastorie l’incontro con Omero è una sorta di sfida che esalta le sue corde di narratore?
«Sì ma è una sfida che è iniziata nel 1974, quando cominciavo ad andare nelle scuole a raccontare le storie dei paladini di Carlo Magno. Un giorno mi invitarono a fare qualcosa di diverso, si parlò dell’Iliade e cominciai a studiare: lessi il poema, lessi tutte le storie dei miti dell’antica Grecia, Medea, Edipo, per farmi una cultura completa dell’epica greca, e alla fine portai lo spettacolo nelle scuole medie. Avevo studiato tanto, avevo imparato a vivere queste storie della guerra di Troia al punto che i personaggi mi erano diventati familiari e così cominciai a rappresentare l’Iliade diversificandola a secondo del luogo dove andavo: poteva essere di volta in volta un pubblico di adulti, di famiglie, di liceali e ogni volta sceglievo un pezzo diverso per renderlo alla loro portata. Alla gente dei vicoli che non conosceva l’Iliade, quando parlai dell’incontro fra Ettore e Andromaca prima della battaglia, per farmi capire paragonai l’eroe che saluta la sua sposa col bambino in braccio a un camionista che parte la mattina presto mentre la moglie gli raccomanda di non correre, di non bere. Era il mio modo per fare capire che si trattava di una storia contemporanea».
Omero o Mozart-Da Ponte per lei pari sono: del resto il suo maestro la faceva esercitare facendole “cuntare” la cena appena consumata…
«Ma mi ha fatto capire anche che prima di guidare una macchina bisogna avere la partente e poi se continui a studiare il codice della strada puoi anche permetterti una macchina più potente. Faccio un esempio: quando dovevo inaugurare il teatro comunale di Noto, pensavo di raccontare l’Iliade con i pupi ma prima di iniziare andai a prendere un gelato e mi sono fatto raccontare dalla gelataia il crollo della cattedrale di Noto. Lei mi disse che quel giorno la polvere alzata aveva coperto il cielo, evocò il disastro, mi raccontò che per terra c’erano occhi che guardavano, nasi , bocche, quelli dei santi caduti dagli affreschi. Questo racconto mi penetrò talmente nel cuore che quando salii sul palcoscenico iniziai parlando degli Achei prima dell’assedio di Troia ma poi feci una deviazione creando una fusione improvvisata col “cunto” della cattedrale crollata: ho mischiato una storia di tremila anni fa con una storia contemporanea. Questo per dire che come narratore io posso raccontare qualsiasi storia, ma la devo sentire, i testi me li devo cucire addosso».
E due personaggi epici dei giorni nostri come Falcone e Borsellino non sono materia da “cunto” con la loro storia di eroismo ai confini con le tragedie shakesperiane?
«Nel 1993, un anno dopo la strage di via D’Amelio, la signora Agnese Borsellino mi disse che il marito mi stimava e mi invitò a raccontare alcuni passi di un libro sul marito. Mi mise in crisi ma quando lessi il libro vidi che c’erano aneddoti riferiti dai fratelli e allora scattò qualcosa , mi ricordai della mia infanzia in quegli stessi luoghi, piazza Magione, via Vetriera, leggevo di Borsellino in bicicletta coi fratelli e mi rivedevo bambino anch’io sulla bici. E così quando salii sul palco del teatro Biondo, a Palermo, dissi che volevo raccontare la storia dell’infanzia di Paolo Borsellino perché quella era anche la mia infanzia».
Nel suo repertorio c’è anche il “cunto” della morte del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, fuori campo, alla fine del film “Cento giorni a Palermo”: come nacque quell’esperienza?
«Quando il regista Giuseppe Ferrara mi chiese quel tipo di “cunto”, gli risposi che io ero abituato alla battaglia di Ronsisvalle e non un agguato mafioso con il kalashnikov .Poi da siciliano sentii che non potevo tirarmi indietro di fronte alla storia di un uomo che per servire lo Stato è venuto qui a farsi ammazzare».
Il cavallo di battaglia, però, resta il repertorio delle avventure di Orlando, Rinaldo e compagni: possiamo definire il ciclo carolingio come l’antenato delle serie tv?
«Assolutamente sì. Tra Sette e Ottocento il “cuntastorie” diceva
docu a lassamu e domani a cuntamu, lì la lasciamo e domani la raccontiamo, come dire arrivederci a domani. E più avanti quando finiva lo spettacolo, senza un finale, usciva in scena il cosiddetto pupo “per domani” che leggeva la sinossi del giorno dopo e diceva “per domani si rappresenterà il grande e spietato e terribile duello per amore di Angelica”. Sicuramente le telenovelas e poi le serie tv sono stati i continuatori di un mondo antico, ma nell’opera dei pupi c’era una cultura di fondo, quella dei viaggi, di mare e di terra, e quindi la geografia, si citava la Tartaria del Gran Khan, c’era la storia, c’era il culto della legalità, del rispetto verso la donna: mio padre quando un personaggio rapiva una donzella diceva al ladrone: “Nessuno ti ha insegnato che le donne non si sfiorano neppure come un fiore?”».