Ong, l’alibi dello scontro con la Germania
26 Settembre 2023LE SOLUZIONI DISPONIBILI
26 Settembre 2023
di Giovanni Bianconi
Da Capaci agli attentati di Roma e Firenze. La fuga durata trent’anni, voleva morire latitante ma è stato battuto. Otto ergastoli e la fedeltà a Cosa nostra: «Non sarò mai un pentito»
La sua sfida era morire latitante, e l’ha persa. Di soli otto mesi su una partita lunga trent’anni, ma ha perso. Matteo Messina Denaro voleva emulare suo padre Francesco, il boss dal quale aveva ereditato il trono mafioso a Castelvetrano e nella provincia di Trapani, ricercato dal 1990 e ricomparso cadavere nel ’98, pronto per le esequie; restituito morto alla famiglia e allo Stato, a cui non rimase che vietare il funerale per motivi di ordine pubblico.
Magra consolazione, dopo una sconfitta che con il figlio si è riusciti a evitare. Per colpa della malattia che l’ha colpito, certo, «altrimenti non mi prendevate» come ha detto lui stesso in tono provocatorio ai pm di Palermo dopo la cattura. «Intanto l’abbiamo presa», gli ha risposto secco il procuratore De Lucia, sottolineando che quello che conta è il risultato finale.
La morte da libero ne avrebbe fatto un mito immortale, forse non solo per i suoi familiari e seguaci; così invece è morto davvero. Trent’anni in fuga non sono un record, ma erano diventati un peso insopportabile per l’apparato investigativo e giudiziario. E anche se il suo destino da galeotto s’è consumato in fretta, rimane intatto il valore della vittoria dello Stato.
A fronte di otto condanne all’ergastolo, otto mesi di carcere sono poca cosa; ma quella pur minima parte di conto pagato ha infranto la leggenda dell’impunità inseguita da Matteo Messina Denaro e della sua famiglia. Tutta votata all’imprendibilità del boss erede, alla quale hanno sacrificato la propria libertà il fratello, le sorelle, i cognati e persino i nipoti. Quasi incuranti di subire carcere e indagini senza sosta per conto del capomafia imprendibile, che dai suoi rifugi mandava messaggi di incoraggiamento.
«Essere incriminati di mafiosità, arrivati a questo punto, lo ritengo un onore. Siamo stati perseguitati come fossimo canaglie, come se non fossimo della razza umana», scriveva Matteo dopo l’arresto di una sorella e del nipote prediletto. Come se il problema non fossero i crimini e le angherie della mafia, ma quelle presunte dell’antimafia sulle tracce di un ricercato. Autodefinitosi «nemico» dello Stato.
I pensieri affidati dal boss a quella sorta di diari ritrovati nel suo ultimo covo esprimono una filosofia di vita, tutta improntata al culto del padre e della propria personalità: «Un essere umano muore veramente quando viene dimenticato, e io credo che non lo sarò mai. Le persone che ho amato, i miei affetti, non si dimenticheranno mai di me». Magari sarà vero, come dimostra la schiera di donne con cui ha avuto continue relazioni e la devozione di un’intera dinastia. Alla quale nell’ultimo tratto ha voluto aggiungersi Lorenza, la figlia concepita in latitanza e conosciuta attraverso un vetro blindato nel supercarcere dell’Aquila, che ha chiesto e ottenuto di prendere il suo cognome.
Ma le vicende personali e familiari di Messina Denaro non ne cancellano il ruolo di capomafia; anzi lo integrano come nel caso di Rosalia, la sorella maggiore arrestata dopo di lui per averne gestito i conti foraggiandolo con le decine di migliaia di euro necessarie alle «spese correnti» del fratello-padrino.
Strategie mafiose
Seguì la linea stragista
di Riina, poi condivise
la «sommersione»
di Provenzano
È stata proprio la decisione di concentrarsi su di lei a consentire ai carabinieri del Ros di afferrare il filo che li ha condotti fino all’arresto nella clinica La Maddalena a Palermo, la mattina del 16 gennaio scorso. Lì hanno perso la sfida il boss e il suo nucleo familiare, immolato alla tutela del capomafia della provincia di Trapani. Ruolo che Messina Denaro ha rivestito senza confonderlo con quello di «capo dei capi» di Cosa nostra già occupato da Riina; anzi, tirandosi fuori quando gli altri boss l’hanno interpellato per ricostituire la Cupola. Forse temeva conflitti che non voleva più affrontare. Perché nel frattempo Matteo — detto ’u siccu, per via di una magrezza figlia di una sempre attenta cura del corpo — aveva cambiato strategia criminale.
Nei primi anni Novanta s’è schierato dalla parte di Totò Riina, sposando la linea di aggressione frontale allo Stato, con le stragi di Capaci e via D’Amelio, e poi quelle sul continente del 1993. Ma in seguito, dopo gli arresti degli altri fedelissimi di Riina, ha accettato di buon grado il mutamento impresso da Bernardo Provenzano, l’altro boss di Corleone che chiuse con le bombe riprendendo la via della convivenza (e connivenza) con le istituzioni; la cosiddetta mafia «sommersa», per fare accordi e affari senza clamori né attirare attenzioni.
La corrispondenza tra Messina Denaro e Provenzano trovata nel 2006 nel covo di quest’ultimo dimostra vicinanza e condivisione d’intenti che l’ex figlioccio di Riina ha faticato a giustificare nell’interrogatorio con i magistrati: «Quando si fa un certo tipo di vita, io latitante accusato di mafia, lui latitante accusato di mafia, dove si va?», ha detto negando di avere mai incontrato lo «zio Binnu» di persona, negando di essere un mafioso e adottando per sé l’ossimoro di «criminale onesto».
Versioni abbastanza risibili per giustificare il coriaceo rifiuto di ogni forma di collaborazione con la giustizia: «Io non mi farò mai pentito. Non ho mai infamato nessuno e morirò senza infamare nessuno, questo è Messina Denaro».
Un invalicabile muro di omertà a protezione della propria dignità di «uomo d’onore» e dei propri segreti, che l’arresto e le successive indagini hanno scalfito. Almeno per ora. Se davvero era lui ad aver ricevuto l’archivio di Riina salvato da altri mafiosi dopo la sua cattura nel gennaio ’93, come hanno raccontato alcuni pentiti, quelle carte non sono saltate fuori. E chissà — eventualmente — dove le teneva nascoste. Nell’ultimo rifugio di Campobello gli investigatori hanno trovato molte chiavi, senza scoprire quali porte aprono. Si cercano ancora uno o più covi del boss, che non ha voluto parlarne: «Queste cose, se le avessi, non le darei mai».
E quel «se ho qualcosa non lo dico, sarebbe da stupidi» pronunciato davanti al giudice a proposito dei beni patrimoniali posseduti, si può tranquillamente estendere ai retroscena delle trame mafiose di cui è stato protagonista. A cominciare proprio dalle stragi del ’92 e dalla decisione di Riina di non uccidere Giovanni Falcone a Roma (missione per la quale Riina aveva inviato proprio Messina Denaro nella capitale, dove sarebbe stato più facile colpire il magistrato), bensì con un attentato terroristico a Palermo di tutt’altro impatto. Chi e che cosa determinò quel cambio di programma? E che accadde davvero con l’altrettanto eversivo attentato a Paolo Borsellino? Chi fornì, l’anno successivo, indicazioni e suggerimenti sui luoghi d’arte e di cultura da colpire con gli attentati in continente, a cui pure ha partecipato? E quali contatti politici e imprenditoriali fecero da sfondo alla fine delle stragi e alla ripresa del «quieto vivere» fra Stato e mafia?
Sono alcuni dei segreti che Messina Denaro ha custodito fino alla morte, come quelli sul suo tesoro nascosto e sulle protezioni di cui ha goduto per trent’anni. Che con la sua scomparsa diventano ancora più segreti.