Viaggio nei capannoni di Domusnovas, in Sardegna, dove vengono prodotte le armi per Nato e Ucraina
DOMUSNOVAS — Un colossale ragno meccanico appeso al soffitto afferra otto bossoli, li solleva contemporaneamente e poi vi riversa l’esplosivo. Terminata l’operazione, li adagia sul pavimento asettico, deponendoli come uova destinate a generare l’inferno. La scena sintetizza la nostra epoca: con questa manovra robotizzata, le munizioni scadute della Guerra Fredda riconquistano la loro forza distruttiva e le armi inutilizzate nel passato più cupo si tramutano negli strumenti letali di un presente drammatico. Così infatti migliaia di residuati bellici pescati nei fondi di magazzino del nostro Esercito si trasformano nella merce più richiesta sui mercati mondiali: i proiettili d’artiglieria da 155 millimetri, destinati in questo caso a raggiungere le batterie ucraine in prima linea. Li vogliono tutti: il governo di Kiev che ne consuma migliaia ogni giorno per respingere l’invasione russa, la Nato che ha esaurito le scorte e adesso anche Israele alle prese con l’offensiva di Gaza. Ma sono introvabili, perché in Europa si era praticamente smesso di produrli da vent’anni. L’unica eccezione è questo stabilimento sardo, il più moderno del Continente.
Siamo nel luogo più segreto e più contestato d’Italia: l’industria di Domusnovas, spesso chiamata “la fabbrica delle bombe insanguinate”. Ottanta ettari di laboratori bunker, protetti da alti reticolati e addossati a colline che ricordano il Far West: pure gli uffici e il portone d’accesso sono stati costruiti in stile Fort Alamo, rendendo distopica l’atmosfera. L’impianto è nato all’inizio del millennio, per volontà della storica impresa Sei di Ghedi (Brescia), poi diventata Rwm e rilevata nel 2011 dal gruppo tedesco Rheinmetall, tra i più attivi nelle forniture all’Ucraina, ma la gestione è rimasta interamente italiana a partire dall’amministratore delegato Fabio Sgarzi. Varcati i cancelli c’è l’intera filiera che trasforma cilindri d’acciaio in ordigni per aereo, mine navali, proiettili d’artiglieria.
Munizioni, d’ogni calibro e potenza prendono forma nei capannoni, dove si lavora con un misto di tecnologie avanzate e competenza artigianale. Si confezionano pure quelle giganti da 2000 libbre, oltre 900 chili, che si usano per distruggere i rifugi sotterranei. Quasi tutte andranno ad aviazioni europee.
Ormai non esistono più bombe generiche; ognuna viene confezionata su misura per un determinato modello di caccia: ci sono quelle per i Rafale francese e quelle per gli F35 olandesi. Dovranno restare agganciate sotto le ali a velocità supersoniche, senza interferire con l’aerodinamica, e spesso venire dotate di testate di guida al laser o gps: la precisione deve essere assoluta, verificata con più apparecchi computerizzati persino nella verniciatura.
Gli involucri vengono forgiati nella prima parte della fabbrica. Poi, divisa dal letto di un torrente, c’è l’area di caricamento degli esplosivi. Dove compaiono le bandiere rosse non si possono usare strumenti elettrici né suole di cuoio per evitare il rischio di scintille. Ogni stanza è serrata da bastioni di terra e cemento, ogni locale a distanza di sicurezza dall’altro: quasi sempre le operazioni sono automatizzate, senza personale presente.
Le fasi più delicate però sono controllate manualmente dagli operai: come la selezione della polvereesplosiva che viene setacciata da due persone, attente che non resti nemmeno un pezzettino di carta. Poi viene mescolata dentro grandi cilindri metallici, che evocano gli alambicchi degli alchimisti, a seconda dell’impiego: la quantità maggiore finisce nel ventre delle mine navali, quasi ottocento chili, appena ordinate dal governo australiano per tenere lontana la flotta cinese. L’attività non conosce soste. Va avanti su tre turni, ventiquattrore al giorno: la mensa interna serve pranzo, cena, colazione e sono state allestite sale relax per la pausa di mezzanotte. Nel 2019 il governo Conte aveva sospeso le forniture di ordigni per l’aviazione saudita ed emiratina, già autorizzate dall’esecutivo Renzi: una campagna umanitaria contro i bombardamenti nello Yemen, che avevano fatto strage di civili.
All’epoca erano la commessa principale e la Rwm ha rischiato di chiudere. Poi, prima ancora che il bando contro i due Paesi arabi venisse revocato da Draghi e Meloni, c’è stata l’invasione dell’Ucraina ed è cambiato il mondo: il ritorno alla corsa agli armamenti ha sommerso Domusnovas di ordini, fino a renderlo soldout . Sono stati riassunti gli operai, altri sono arrivati dalleimprese in crisi del Sulcis e ora Rwm Italia è passata da 300 dipendenti a 480: l’età media è di 34 anni, alcuni sono fratelli, diversi sono laureati. Nei prossimi mesi ne serviranno altri cento ma si fatica a trovarne. Oltre al contratto australiano, sta infatti per partire la costruzione delle loitering munition: i piccoli droni killer protagonisti delle battaglie ucraine, acquistati da alcuni eserciti della Nato.
Per Kiev si mandano avanti le consegne dei colpi da cannone e da tank, pagati dalla Germania. Gli ucraini continuano a domandarne altri, perché le riserve sono quasi esaurite mentre i russi ne hanno ricevuti in quantità dalla Corea del Nord. L’Unione europea pochi giorni fa ha riconosciuto di non potere rispettare la promessa di un milione di munizioni d’artiglieria fatta al governo Zelensky: non ci sono catene di montaggio in grado di produrle. Una situazione paradossale, perché a Domusnovas c’è pure una seconda fabbrica nuova di zecca, ancora più moderna della prima, che è costata 45 milioni ma resta ferma per ricorsi amministrativi. L’azienda mostra i permessi che l’hanno autorizzata, ma una volta ultimata è stata qualificata come impianto per la produzione di sostanze chimiche — mentre Rwm sostiene che ci si limita a mescolarle — che quindi necessita della valutazione di impatto ambientale: la procedura è ripartita da zero.
Più che gli aspetti ecologici, è indubbio che una fabbrica del genere ponga seri problemi etici: ogni settimana sforna centinaia di ordigni e visualizzarne gli effetti devastanti provoca un senso di angoscia. Ma dopo tre decenni di pace, la guerra è tornata in Europa e tutti i governi devono fare i conti con l’onere delle armi e con l’impegno a sostenere la difesa dell’Ucraina. Attualmente da Domusnovas arrivano a Kiev trenta munizioni al giorno: quelle che nello stesso tempo vengono consumate da un singolo obice. Ne sono previste 23 mila, con i nuovi macchinari potrebbero essere subito triplicate. La decisione è nelle mani dei tribunali amministrativi.