l’analisi
di Francesca Mannocchi
Noura ha cominciato a giocare a pallone a nove anni. Trascorreva i pomeriggi tirando calci a una palla coi ragazzini che vivevano vicino a lei e alla sua famiglia in un quartiere a Nord di Kabul. È andata avanti così finché non l’ha notata un allenatore che le ha chiesto di provare a far parte di una squadra di calcio femminile. Sua madre, timorosa del giudizio della gente, ha tentato di fare resistenza. Nella società conservatrice afghana, anche dopo il 2001 e la caduta del primo emirato islamico, la passione sportiva in una donna era considerata una violazione della modestia, un mancato rispetto del ruolo imposto alle donne nella società. Per questo sua madre l’ha punita e picchiata, ha provato a convincerla ad abbandonare lo sport, gli allenamenti, ma la passione di Noura era talmente viva e tenace che alla fine la famiglia ha ceduto e a tredici anni la ragazza è stata nominata migliore giovane calciatrice della sua età, e celebrata in televisione e sui giornali.
Da allora sono passati otto anni, Noura è diventata una donna e il Paese in cui a una bambina era permesso, sebbene con fatica, di sognare una forma di libertà come tirare un calcio al pallone, non esiste più, perché in meno di due anni l’Afghanistan è tornato indietro di secoli.
Dal 2021 del Paese dei programmi che incoraggiavano lo sport, delle scuole per le bambine e per le donne, del percorso di emancipazione femminile non resta niente. Un percorso raso al suolo da una guerra di vent’anni conclusa con la sconfitta di Stati Uniti e dei loro alleati, da una fuga caotica e frettolosa dei contingenti occidentali e dalla conseguente presa del potere dei talebani.
Ad agosto 2021, quando è stato chiaro come sarebbero finite le cose, il suo allenatore ha avvertito la famiglia di farla fuggire. Noura dice che sua madre non l’ha avvertita e, spinta dalla disperazione, la ragazza ha tentato di togliersi la vita. Si è ripresa, ma la sua vita è diventata un buio vicolo cieco.
La sua è solo una delle tante storie raccolte da Ebrahim Noroozi, fotografo dell’Associated Press, che ha speso giorni a Kabul ritraendo i corpi delle sportive afghane costretti sotto il punitivo burqa.
Nella foto che ritrae Noura, la donna tiene un pallone nella mano destra, alle sue spalle ci sono altre dieci donne, anche loro con un pallone in mano. È una squadra, undici donne cui il regime talebano sta impedendo di vivere il presente e pensare il futuro, undici donne unite dalla determinazione di riavere indietro quello che è stato loro sottratto.
I dilemma degli aiuti
Il divieto di praticare sport fa parte della crescente campagna di restrizioni dei talebani che ha interrotto la vita di milioni di donne. Dopo aver preso il potere sedici mesi fa, i talebani hanno dichiarato che avrebbero riorganizzato l’istruzione femminile rispettando il diritto delle giovani di frequentare le scuole. Garanzia disattesa. Non solo le giovani non sono mai tornate a scuola, ma è stato loro imposto un guardiano per uscire di casa, non possono entrare nei parchi, nelle palestre, le loro possibilità di lavorare fuori casa sono state progressivamente compromesse fino al divieto, il mese scorso, di essere assunte nelle ong che ancora, con fatica, operano nel Paese, un passo che sta paralizzando l’accesso agli aiuti umanitari da cui il Paese dipende.
Molte organizzazioni, infatti, dopo l’ennesima restrizione dei talebani che le riguardava, hanno deciso di interrompere le attività. Medici senza Frontiere ha espresso grande preoccupazione sulla capacità di riuscire ancora a curare le donne. «La partecipazione delle donne che lavorano nelle ong alla fornitura di servizi sanitari è assolutamente essenziale – hanno scritto -. Le donne costituiscono oltre il 50% del personale medico di Msf in Afghanistan».
Parliamo di quasi mille tra personale medico e infermieristico, cruciale non solo perché garantisce alle donne di ricevere cure, ma anche perché è sul loro lavoro e sul loro stipendio che da anni si sostengono interi nuclei familiari. La salute di una donna è, insomma, la salute di una intera comunità e la domanda, ora, è cosa ne sarà di donne malate se sarà preclusa loro la possibilità di essere curate da medici uomini, come faranno le donne a partorire se le cliniche delle organizzazioni umanitarie dovessero tutte interrompere le loro attività, quanto aumenterà la mortalità materna, quella infantile, e ancora, cosa ne sarà di tutte le giovani e giovanissime che non possono studiare, né lavorare e vivono in una delle milioni di famiglie sull’orlo della fame.
Uno degli effetti già visibili dopo un anno e mezzo è l’aumento delle dei matrimoni precoci, bambine di fatto vendute, costrette a sposarsi per garantire un’entrata economica al nucleo familiare. La scorsa settimana il segretario generale dell’organizzazione Nrc, il Consiglio norvegese per i rifugiati, è volato a Kabul per incontrare i vertici talebani, l’ha fatto spinto dal precipizio dei numeri che raccontano la crisi del Paese ma anche da un principio per molti non negoziabile: se i diritti delle donne non vengono rispettati, non possiamo continuare: «Non stiamo dando aiuti alle centinaia di migliaia di persone che serviamo qui in Afghanistan – ha detto Egeland in un video diffuso da Kabul -. Sta piovendo, sta nevicando, la vita qui è miserabile, e non dare loro aiuto è estremamente doloroso per noi, ma riprenderemo a lavorare solo se ci saranno anche le donne, secondo tutti i valori tradizionali afghani». Poi ha descritto gli scenari futuri se questo non dovesse avvenire: senza organizzazioni umanitarie nel Paese 6 milioni di persone saranno a un passo dalla carestia, 13 milioni di persone rischiano di vivere senza acqua e 600 mila bambini resteranno senza istruzione.
La scuola negata
È la scuola, una volta ancora, a essere il metro dell’evoluzione del movimento talebano.
A settembre i talebani avevano consentito lo svolgimento degli esami di ammissione all’università anche per le ragazze, tre mesi dopo l’improvvisa virata. Niente più università per le donne. La decisione non è solo figlia di un cieco conservatorismo, è anche lo specchio delle dispute interne al gruppo perché la scolarizzazione delle ragazze è stata a lungo un punto di contesa tra le fazioni conservatrici e quelle più moderate dei talebani e i divieti di questi mesi aiutano a definire chi stia avendo la meglio. Da quando sono tornati al potere hanno reso la trasformazione del sistema educativo del Paese uno dei cardini del cambiamento che avrebbero messo in atto nella società. Le decisioni di dicembre hanno un nome, un volto e una storia.
Da ottobre a guidare il Ministero per l’Istruzione superiore è Nida Mohammad Nadim, un comandante militare che ha trascorso gran parte della sua vita nascosto nel Paese devastato dalla guerra. È stato un oppositore veemente delle riforme al sistema educativo introdotte dai Paesi occidentali in Afghanistan dopo l’invasione del 2001 e ha fatto della rimozione dell’educazione laica «importata dagli invasori americani» il principio trainante delle sue decisioni politiche. Istruire le donne è per lui, come per tutti i talebani intransigenti, un’azione non islamica e contraria ai valori culturali afghani. Dopo la rimozione del primo emirato islamico nel 2001, Nadim ha tenuto per anni un seminario islamico a Kandhahr, e da lì, dalla città culla del movimento, ha iniziato la sua ascesa al vertice. A lui si deve il progetto di costruire una vasta rete di nuove madrase (scuole islamiche) nelle 34 province del Paese.
Nadim, che porta il titolo di Sheikh al-Hadith, che viene riservato ai più eminenti studiosi dei detti del profeta Maometto, è membro del consiglio di religiosi che sostiene il leader supremo Mullah Haibatullah Akhundzada, ed è stato da lui direttamente nominato. La decisione ha indotto gli analisti a prevedere da subito che alla nomina sarebbe seguita un’ondata di nuovi divieti. E così è stato, in un tentativo, pare, di placare gli umori degli ultraconservatori talebani che si oppongono da sempre all’educazione femminile. Dopo la presa del potere nell’estate del 2021 è stato nominato governatore della provincia di Nangarhar, e lì, in qualità di capo dell’intelligence provinciale, ha ordinato ai combattenti talebani di uccidere chiunque avesse lavorato con il governo o avesse manifestato contro i talebani, poi ha ottenuto un ruolo nel governatorato di Kabul, fino ad approdare al ministero dell’Istruzione Secondaria. Da quando è stato nominato, due mesi fa, ha imposto una rete di controllori nelle università pubbliche, nominato ex combattenti talebani a ruoli dirigenziali nel ministero e reclutato altri ex combattenti come insegnanti nelle facoltà sebbene, naturalmente, non ne avessero le competenze. In qualità di ministro dell’Istruzione, Nadeem ritiene che l’abilità di un combattente talebano dovrebbe essere determinata dal numero di bombe che ha fatto esplodere piuttosto che dalla sua qualifica accademica. Lo ha detto a inizio dicembre, parlando nella provincia di Herat, dove di fronte ai sostenitori del gruppo ha spiegato che i talebani non hanno bisogno di essere giudicati da una commissione d’esame universitaria ma il metro per valutarne le vere qualità è solo «il numero di bombe esplose contro il nemico».
Poi il divieto per le donne di entrare in facoltà. «Era necessario – ha detto Nadeem – perché alcune materie violano i principi dell’Islam».
Tesi senza alcuna base, naturalmente. La verità è che gli intransigenti, i più severi pashtun dei villaggi, hanno trionfato sui pragmatici, ministri e funzionari talebani contrari ai divieti che fanno studiare le figlie in Qatar, negli Emirati e sanno che dal rispetto dei diritti delle donne dipende lo stato di salute delle casse dello stato.
Dipende, in sintesi, la sopravvivenza di milioni di persone che patiscono la fame.
L’impassibilità del potere
Trattare o non trattare coi talebani, per aiutare la gente. Questo, da due anni, è il dilemma. Prima i fondi congelati come effetto delle sanzioni, poi la sospensione delle attività delle organizzazioni umanitarie, in mezzo una crisi umanitaria senza precedenti che segna il punto di non ritorno di un dilemma morale che l’Occidente che per vent’anni ha combattuto in Afghanistan per evitare all’oscurantismo di avvolgere di nuovo il Paese e che, però, ha tragicamente fallito.
Le proteste interne, sedate con violenza, e quelle della comunità internazionale hanno lasciato impassibili i talebani. Obaidullah Baheer, docente universitario afghano e noto attivista per i diritti umani, ha affermato di recente che la vittoria dei talebani sulla coalizione guidata dagli Stati Uniti abbia reso il gruppo più ostinato, testardo, «sono stati temprati da vent’anni di guerriglia contro l’esercito più potente del mondo e i sacrifici che ritengono di aver fatto per il prezzo della loro vittoria nell’attrito li hanno resi impermeabili al dubbio».
Nonostante la tracotanza del potere, la ferocia delle scelte, la disgrazia dei divieti, di fronte alla gravità della situazione, al ricatto sul corpo delle donne, la domanda, urgente, che si impone non dovrebbe essere se negoziare coi talebani ma come.
Prima alleviare la miseria della gente, poi pensare all’inclusività del governo talebano. È sull’inevitabilità di una scelta che si decide, oggi, la vita e la morte di milioni di persone, al centro del secondo inverno della secondo emirato islamico in Afghanistan.