Forse sarà capitato anche a voi queste settimane: guardando un Tg, o scrollando i tweet vi sono passate davanti, senza soluzione di continuità, immagini simili di proteste di piazza, cariche della polizia, slogan, striscioni e palazzi imbrattati di vernice.

Occorre prestare un po’ di attenzione supplementare per comprendere che, da un filmato all’altro, manifestanti e contesti sono molto diversi.

Di certo le persone con la maglia verde-oro non vogliono le stesse cose delle donne che stanno bruciando il velo e tantomeno sembrano interessate all’ecologia.

Eppure, la giustapposizione delle immagini, in una sorta di parallelismo dinamico, rischia di creare un legame tra cose completamente distinte, quasi a conferire un senso unitario al flusso di informazioni.

Alla fine degli anni Trenta, Walter Benjamin aveva compiuto un ragionamento profetico su questo processo che possiamo definire il nostro “spettro di assorbimento” della realtà attraverso il filtro dei media.

Il suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnicasegue l’evolversi di questa esperienza nel tempo e nella complessità della comunicazione.

Al grado zero c’è la conoscenza personale, che è la ragione per cui noi andiamo al Louvre, anziché accontentarci di un poster delle Monna Lisa.

Il passo successivo è la narrazione orale che ha impegnato l’umanità per millenni: un’azione collettiva dove si ascolta, si partecipa, si elabora e ogni volta in modo differente.

Con l’invenzione del libro stampato e della fotografia, la possibilità di accesso e decodificazione dell’informazione diventa un’esperienza molto diversa: testo e immagini arrivano a tutti richiedendoci un’immersione totalmente “assorbente” in termini di attenzione e tempo per essere compresi.

Inoltre, l’informazione persiste: continua a essere rielaborata e contribuisce a costruire il nostro rapporto di esperienza con la complessità del reale.

Benjamin ci fa notare che già nel cinema la fruizione dei dati cambia. La natura dinamica delle immagini toglie profondità ai contenuti, costringendoci a un’esperienza più “distraente” e immediata.

La cosa di per sé non è negativa, anzi è perfetta per raccontare la complessità articolata della modernità attraverso i suoi ritmi accelerati.

Oggi sappiamo, però, che il processo funziona, se quei filmati sono il risultato di un percorso definito, se c’è una sceneggiatura o una regia che elaborano consapevolmente il messaggio per uno specifico canale e un pubblico coerente.

Benjamin non poteva immaginare che nei media contemporanei la necessità di andare incontro al desiderio di immediatezza diventasse così pressante, tanto da far passare l’elaborazione in secondo piano, facendoci arrivare le informazioni quasi in forma di frammenti nudi e crudi.

Nel contempo il mondo è diventato talmente complesso che invece necessiterebbe di molti più approfondimenti per essere decriptato.

Più che di immediatezza avremmo bisogno di “immersività”, ma anche se abbiamo accesso a ogni informazione possibile, scavare a fondo sta diventando sempre più un lusso in termini di tempo e della nostra limitata capacità di assorbimento.

Ma il problema è più sottile e non riguarda solo la capacità di comprendere a fondo ciò a cui stiamo assistendo.

Il rischio è che, per soddisfare il nostro bisogno personale di organizzare in un significato coerente anche informazioni così frammentarie, finiamo per creare un nostro personale livello di complessità, attribuendo a ciò che vediamo un senso unitario anche quando non c’è.

Non potendo rielaborare le notizie riusciamo al massimo a raggrupparle per categorie: così Brasilia, Teheran e Roma si confondono in un unico mormorio di rivolta, ogni omicidio è inglobato in un “ondata di violenza”, ogni soldato sullo schermo diventa il protagonista di una sola guerra.

La prossima tappa di una modernità ancora più frenetica e complessa potrebbe portarci a media ancora più distraenti.

A quel punto siamo sicuri che riusciremo a distinguere le informazioni di una news da quelle di una fiction?