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3 Maggio 2025
Milan Kundera a Gerusalemme: “Siete il vero cuore dell’Europa”. L’omaggio alla “piccola patria ebraica ritrovata” del romanziere
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E’ il maggio 1985, un altro mondo e un altro medio oriente. Israele si è appena ritirato dal Libano dopo una guerra ai terroristi palestinesi di Arafat che ha dilaniato il paese e l’opinione pubblica, quando Milan Kundera, lo scrittore dell’“Insostenibile leggerezza dell’essere”, arriva nello stato ebraico per ricevere il Premio Gerusalemme. Attribuito ogni biennio, il maggior riconoscimento letterario israeliano è stato vinto da Bertrand Russell, Isaiah Berlin, Simone de Beauvoir, J.M. Coetzee, Susan Sontag e Leszek Kolakowski.
In nessun altro luogo al mondo si sarebbe potuta sognare una cerimonia come quella: lo scrittore ceco, divenuto cittadino francese, è ricevuto dallo straordinario Teddy Kollek, sindaco di Gerusalemme, mitteleuropeo come Kundera, e da padre Marcel Dubois, il religioso domenicano francese diventato cittadino israeliano e direttore della cattedra di Filosofia all’Università Ebraica, uno dei pochi cattolici che rispetta il sionismo e il “mistero d’Israele”. Il tutto è arricchito da un intermezzo musicale mozartiano eseguito dai bambini israeliani, tra cui una straordinaria giovane pianista figlia dello scrittore Saul Friedlander, sopravvissuto alla Shoah che si era nascosto in Francia.
Erano anni di grandi cambiamenti nella percezione israeliana dell’Europa e per questo Gerusalemme decise di onorare quello scrittore che veniva dal cimitero del popolo ebraico. David Grossman pubblicò il suo acclamato romanzo sull’Olocausto, “Vedi alla voce: amore”. Il popolare cantante Yehuda Poliker pubblicò l’album “Cenere e polvere” (ef’er ve-a’vak), che affrontava l’Olocausto dal punto di vista dei figli dei sopravvissuti. E il ministero dell’Istruzione di Gerusalemme iniziò a sponsorizzare i viaggi ad Auschwitz per i giovani delle scuole.
Kundera, nato a Brno, dove durante l’occupazione tedesca i nazisti avevano assassinato dodicimila ebrei, aveva espresso più volte pubblicamente la sua amicizia per gli ebrei e per Israele. Una volta disse a un intervistatore che vivere in Francia non significava vivere in esilio, perché la sua vera patria era la cultura occidentale, che continuava a prosperare a Parigi. Ma Kundera era profondamente consapevole del fallimento delle fantasie transnazionali. La Cecoslovacchia fu tradita dalla civiltà che aveva contribuito a creare, prima che venisse inghiottita. L’Europa occidentale – troppo debole, ottimista o suicidamente egocentrica per difendere la Cecoslovacchia – si tagliò il cuore.
Nel momento in cui ritirò il prestigioso Premio Gerusalemme, Kundera disse: “La circostanza che il premio più importante di Israele sia destinato alla letteratura internazionale non è una coincidenza, bensì riflette una lunga tradizione. Le grandi personalità ebraiche, distanti dalla loro terra d’origine e libere dalle passioni nazionaliste, hanno sempre manifestato un sentimento straordinario nei confronti di un’Europa transnazionale, un’Europa concepita non come un territorio ma come una cultura”.
E poi quella frase che ancora risuona: “Se gli ebrei, anche dopo essere stati tragicamente delusi dall’Europa, sono rimasti fedeli a questo cosmopolitismo europeo, Israele, la loro piccola patria infine ritrovata, appare ai miei occhi come il vero cuore dell’Europa, uno strano cuore posto fuori del corpo”.
Kundera disse che l’Europa “aveva deluso gli ebrei” e che Israele, la “patria riconquistata”, era più Europa dell’Europa stessa, il “vero cuore” del continente, che rappresentava tutto ciò che di buono e nobile vi era nel sogno europeo. Oggi la classe culturale europea vede in Israele un cuore avvizzito o un trapianto di cuore in medio oriente, from the river to the sea, e anche gli “amici” che vanno a Gerusalemme, come Ian McEwan andato a ritirare lo stesso premio di Kundera, si sentono in dovere di denunciare l’“occupazione israeliana”.
Tutti questi scrittori, a quanto pare, sentono il bisogno di criticare il paese che li ha appena premiati per il loro contributo alla civiltà. Come lo scrittore giapponese Haruki Murakami, premiato come Kundera, che disse: “Tra un muro alto e solido e un uovo che si rompe contro di esso, starò sempre dalla parte dell’uovo. Sì, non importa quanto il muro possa avere ragione e quanto l’uovo abbia torto, io starò sempre dalla parte dell’uovo. Se ci fosse un romanziere che, per qualsiasi motivo, scrivesse opere che stanno dalla parte del muro, che valore avrebbero tali opere?”. Ecco, Kundera fu uno dei pochi a dire non solo che gli assediati del muro avevano ragione, ma che l’Europa li aveva traditi.
Nel saggio uscito in Italia per Adelphi con il titolo “Un occidente prigioniero o la tragedia dell’Europa centrale”, Kundera rese omaggio agli intellettuali ebrei: “E tutti quelli che ho appena nominato sono ebrei… Ecco perché li amo e conservo la loro eredità con passione e nostalgia, come se fosse la mia eredità personale. Un’altra cosa mi rende così cara la nazione ebraica; è nel suo destino che mi sembra concentrato il destino mitteleuropeo… Infatti, che cosa sono gli ebrei, se non una piccola nazione, la piccola nazione per eccellenza, l’unica tra tutte le piccole nazioni di tutti i tempi che è sopravvissuta agli imperi e alla devastante marcia della storia?”.
Di Kundera scrive a lungo Alain Finkielkraut nel suo nuovo libro, “Il cercatore di perle”, in uscita la prossima settimana per Feltrinelli. “Kundera costrinse a una vera e propria rivoluzione mentale. Ancora prigionieri della geografia di Yalta, i lettori mettevano Praga, Budapest e Varsavia a est dell’Europa. Kundera rimpatria queste capitali nell’Europa centrale e ne ripristina così la memoria. Essi hanno identificato nel male (imperialismo sfrenato) o nel bene (promozione dei diritti umani) l’occidente con il potere e hanno scoperto, sbalorditi, un occidente fragile, vulnerabile, alla mercé di un vicino insaziabile. Si sono avvicinati alla politica solo con un vocabolario politico e Kundera rivela loro uno scontro di civiltà. Educati alle scienze umane, quei lettori avevano denunciato le devastazioni dell’eurocentrismo, ed ecco che il grido del naufragio dell’Europa si era alzato forte e chiaro. Vivevano nella loro grande nazione, pentiti e abbastanza sicuri di sé da entrare nell’era postnazionale senza paura né rimpianti, ed ecco apparire nel loro spazio percettivo le piccole nazioni, quelle la cui esistenza può essere messa in discussione in ogni momento, e ne sono ben consapevoli”.
Nel 2007, sul New Yorker, Kundera inserì la lotta degli ebrei nella lotta per l’autodeterminazione dei popoli schiacciati dagli imperi: “Come non menzionare il sionismo, nato nell’Europa centrale da quello stesso rifiuto di assimilazione, da quello stesso desiderio di un popolo – gli ebrei – di vivere come nazione con una propria lingua? Uno dei problemi fondamentali dell’Europa, il problema delle piccole nazioni, non si manifesta altrove in modo così rivelatore, così mirato ed esemplare. A mio avviso, non c’è nulla di più ammirevole nell’Europa della seconda metà del XX secolo di quella catena dorata di rivolte che, nel corso di quarant’anni, ha eroso l’impero d’oriente, lo ha reso ingovernabile e ha suonato la campana a morto per il suo regno”.
Dieci anni dopo il discorso a Gerusalemme, Kundera scrisse un breve testo sulla Revue des deus mondes: “Mi viene in mente la famosa affermazione di Friedrich Schlegel all’inizio del XIX secolo: ‘Le tre più grandi tendenze del nostro tempo sono la Rivoluzione francese, il ‘Wilhelm Meister’ di Goethe e le ‘Scienze del mondo’ di Fichte’. Ma l’Europa in cui la frase di Schlegel era possibile e naturale, quell’Europa ci ha lasciato. La sua scomparsa nel nulla è avvenuta sotto i nostri occhi. E fingiamo di non aver visto nulla. Forse non abbiamo visto davvero nulla. Questo evento incredibile non è stato quindi né meditato, né analizzato, né descritto, né osservato. Se muore un vecchio zio che nessuno ha mai conosciuto, è facile ignorare la sua scomparsa. Chi, del resto, è veramente turbato, colpito o danneggiato dalla scomparsa della cultura europea?”.
Quando parlò a Gerusalemme, Kundera stava rilasciando le sue ultime interviste. In un articolo sul Monde, lo scrittore irrise l’alta società culturale: “Rispondendo a Sartre e ai suoi, che lo avevano accusato di essere un reazionario, Albert Camus pronunciò una celebre battuta a proposito di coloro ‘che avevano piazzato la propria poltrona nel senso della Storia’. Camus aveva visto giusto, solo che non si rendeva conto che questa preziosa poltrona era dotata di rotelle e che, già al primo tempo, tutti quanti si erano messi a spingerla in avanti”.
Poi al Christian Science Monitor disse che “l’occidente è stato trasformato in un deserto culturale”. Cosa aspettarsi? “Ovviamente, la fine di un’era. Forse l’inizio di una nuova era barbarica? Il punto non è tanto come questo sta accadendo – se attraverso la brutalità della polizia comunista, la coercizione nazista, la graduale alienazione nelle democrazie occidentali – ma cosa sta succedendo”. Kundera si disse “profondamente pessimista”. Sentiva che alla radice dei problemi c’era una causa più profonda del marxismo, del maoismo, del khomeneismo, molto in voga nel ceto letterario e culturale europeo e parigino dell’epoca. Dal giugno 1985 alla sua morte, l’11 luglio 2023, Kundera non avrebbe più parlato.
Alla fine del suo romanzo “La festa dell’insignificanza”, Parigi pullula di angeli. E quando Stalin appare nei Giardini del Lussemburgo in una scena surreale alla fine del romanzo, viene acclamato da una folla di parigini che lo trovano irresistibile. Mentre Stalin incanta la folla, Alain si concentra sul fantasma della madre in fuga, evocata dai suoi pensieri. In piedi accanto a lui, la madre viene contagiata dalla risata di Stalin, “e tutti intorno, come sollevati, iniziano a ridere a loro volta”. Questa è la risata degli angeli, e nulla è più pericoloso nel mondo di Kundera; oblio di sé che spiana la strada ai tiranni. L’unico antidoto è il ridicolo, come quello scatenato ne “Il libro del riso e dell’oblio” da Sarah, un’irriverente ragazza israeliana in Francia che caccia tre arcangeli in forma umana prendendoli a calci e scatenando una tempesta di scherno. “Sarah è là fuori da qualche parte, lo so, la mia sorella ebrea Sarah. Ma dove posso trovarla?”.
Kundera andò a cercarla a Gerusalemme sulle orme di un altro esule mitteleuropeo, Eugene Ionesco. Anche lui era a Gerusalemme per lo stesso premio biennale che viene assegnato in occasione della Fiera internazionale del Libro. Dopo una breve sosta al King David Hotel, il drammaturgo-filosofo ha parlato con grande calore di Israele. “Gli israeliani affrontano il pericolo con un eroismo, un coraggio che ammiro profondamente”, ha detto. “Ho paura per loro, li ammiro e persino li invidio. Gli europei, gli americani sono pessimisti, nichilisti. Gli israeliani sanno perché vivono, perché muoiono, per cosa stanno combattendo. Sanno cosa ‘fare delle loro vite’”. Sul Figaro, Ionesco sferzò l’autodenigrazione, un atteggiamento mentale che si andava sempre più diffondendo in occidente. “Sono masochisti che vogliono essere additati come colpevoli per tutto ciò che va male nel mondo”. Diceva che “strani filosofi, maestri del pensiero alla moda, ci portano alla distruzione della cultura. La libertà corre verso la schiavitù”.
Anche Ionesco, come Kundera, aveva capito che in Israele c’era in gioco qualcosa di apolitico. In contrasto con la posizione di quasi tutti gli intellettuali francesi del tempo da Sartre da Deleuze, Ionesco come Kundera disse che l’aggressione araba contro gli ebrei aveva avuto luogo nella Guerra dei sei giorni: “Gli intellettuali francesi, avvelenati dal goscismo, sostengono in lettere ai giornali che la stessa presenza di ebrei nel paese di Israele è un’aggressione contro gli arabi. Prendono in prestito a tradimento questa visione del mondo dagli arabi. Se la vita ebraica in Israele è aggressione, allora tutto è aggressione: i francesi sono aggressori in Corsica, in Bretagna e in Linguadoca”.
Come Kundera, anche Ionesco si schierò, contro i suoi colleghi. dalla parte del piccolo Israele Nelle sue memorie scriverà: “Io sono per gli ebrei. Ho scelto questo popolo. Quando tutti pensavano che non ci fosse speranza per Israele mi sono rivolto disperatamente a un diplomatico israeliano e gli ho chiesto cosa potevo fare per aiutarlo. ‘Non posso fare altro che scrivere un articolo sul giornale’, ho detto. ‘E’ molto’, mi ha detto, ‘fallo, tutto è importante. Ho scritto l’articolo, l’ho pubblicato sul giornale. Ho scritto un altro articolo. E ho sentito di aver fatto qualcosa. E’ stata un’azione efficace, non particolarmente grande, ma l’ho fatta con il cuore’”.
Contrariamente alla casta a cui apparteneva l’élite letteraria, Ionesco e Kundera si schierarono con lo stato ebraico. Nel loro atteggiamento verso Israele, i due grandi espatriati si ritrovarono ancora una volta esuli, come l’eroe dell’opera teatrale, Béranger, che si ritrovò l’unico uomo tra i rinoceronti trasformati in folla.
Kundera disse che l’Europa “aveva deluso gli ebrei” e che Israele, la “patria riconquistata”, era più
Europa dell’Europa stessa “Un’altra cosa mi rende così cara la nazione ebraica; è nel suo destino che mi sembra concentrato il destino mitteleuropeo” “Se muore un vecchio zio mai conosciuto è facile ignorare la sua scomparsa. Così, chi è turbato dalla scomparsa della cultura europea?”
Sulle orme di Ionesco: “Gli israeliani affrontano il pericolo con un coraggio che ammiro. Ho paura per loro, ma li invidio”