Cara amica non farmi da sorella
16 Luglio 2023Milan Kundera amava nel romanzo la capacità di descrivere un mondo complicato
16 Luglio 2023Ho un’idea molto più precisa di come sia fatta Manhattan che di quale aspetto abbiano moltissimi quartieri della mia città; e questo è, molto in breve, il soft power americano. È un esempio banale, ma capace di rendere conto dell’aspetto coercitivo sempre insito nell’esercizio di un potere, anche del più soffice possibile. Perché, in effetti, non credo di essermi mai messo alla ricerca di informazioni su Manhattan: ricordo solo di aver visto qualche film di Woody Allen, di aver letto qualche libro di Paul Auster e così via; il resto, potrei dire, è venuto da sé. Ho conosciuto Manhattan forse non proprio contro, ma di sicuro indipendentemente dalla mia volontà. È una strana sensazione quella di aver visitato un luogo in cui in realtà non si è mai stati, ma ne esiste una ancora più difficile da descrivere: quella di aver ricevuto una visita da un luogo.
Si tratta, in ogni caso, di esercitare un’influenza: ma se il Giappone, al contrario degli Stati Uniti, resta ai nostri occhi esotico e lontano, è perché non ci ha mai chiesto di fare un viaggio, neanche immaginario: è sempre venuto lui – praticamente il contrario del turismo. A pensarci bene, non ho alcuna immagine nitida di un quartiere di Tokyo, o di qualsiasi altra località giapponese; e, per dire, la mia rappresentazione mentale del monte Fuji è molto più vicina a un disegno che a una foto.
Il punto è che il Giappone non è mai stato troppo interessato a farsi conoscere; in compenso, è convinto di conoscere noi. Si tratta di una convinzione che poggia su solide basi: Pikachu, il Tamagochi, Super Mario, Hello Kitty, il walkmen, Totoro, il Game Boy, il sushi, gli haiku, Godzilla, Pac-Man, la PlayStation, Sonic, il karaoke – la lista potrebbe essere lunghissima. In un periodo di tempo incredibilmente breve il Giappone ha prodotto un numero senza senso di cose che hanno appassionato milioni e milioni di persone in tutto il mondo. Non proprio senza senso, a dire il vero: ogni successo giapponese nasce in un certo contesto storico, culturale e sociale, approfitta di determinate circostanze favorevoli, e si guadagna una popolarità che è del tutto comprensibile.
Matt Alt, che vive e lavora a Tokyo come traduttore di manga e videogiochi, in POP ポップ, pubblicato da add editore nella traduzione di Simone Roberto, racconta proprio in che modo manga, anime, videogiochi e altre invenzioni giapponesi hanno conquistato il pianeta. Il suo saggio ha diversi pregi: il primo di cui vi accorgerete è la scelta di partire da lontano, dal Giappone del dopoguerra, vale a dire dagli anni dell’occupazione militare statunitense. POP ポップ si propone allora come un racconto delle origini: tante delle personalità che vi aspettate di trovare, le incontrerete per la prima volta ancora piuttosto giovani, e in vesti insolite.
Shigeru Miyamoto? Il creatore di Super Mario, artefice delle fortune di Nintendo, compare inizialmente nei panni di un bambino di sette anni che esce dal cinema affascinato dal primo anime della Toei tratto dai fumetti di Osamu Tezuka, considerato “il padre dei manga”, il Walt Disney giapponese. Hayao Miyazaki? Ancora ben lontano dal fondare lo Studio Ghibli e vincere un Oscar con La città incantata, fa la sua prima apparizione nelle vesti di un neo-impiegato della stessa Toei, bisognosa di rimpiazzi dopo il passaggio dei suoi animatori più esperti alla Mushi Productions, aperta proprio da Tezuka per iniziare a produrre anime in autonomia. Akira Kurosawa? Lo conoscerete sulle barricate, durante uno sciopero indetto dai lavoratori del settore dell’intrattenimento per chiedere salari più alti e ritmi produttivi meno vessanti.
All’autore va riconosciuto inoltre il merito di non aver ceduto alla tentazione di parlare di tutto; ha selezionato invece alcuni casi significativi, e li ha affrontati avendo cura di scendere nei dettagli. Trattando le origini dell’ossessione globale per le cose kawaii, o il legame tra il karaoke e lo stile di vita dei salaryman, o la novità rappresentata da videogiochi come Donkey Kong e Pac-Man, o ancora l’impatto rivoluzionario che ebbe il walkman, POP ポップ colloca tutta una serie di vicende particolari all’interno del più ampio quadro di una società in continua evoluzione.
La trattazione non risulta comunque rapsodica, principalmente per due ragioni: la prima è che questa spinta propulsiva sembra essersi ormai un po’ esaurita. Oggi le creazioni provenienti dal Giappone appaiono più prevedibili e hanno un’influenza minore, ma soprattutto anche i giapponesi ultimamente hanno iniziato a provare quel sentimento collettivo da noi noto come retromania; hanno iniziato, insomma, a guardare più al passato che al futuro.
In Giappone la chiamano showa rétro: è la nostalgia per il periodo in cui ha regnato l’imperatore Hirohito, dal 1926 al 1989. In particolar modo è rimpianta la baburu jidai, “l’epoca della bolla”, vale a dire gli anni a cavallo tra Ottanta e Novanta che hanno preceduto la stagnazione economica del cosidetto “decennio perduto”; un’espressione, quest’ultima, in seguito rivisitata più volte – ventennio perduto, trentennio perduto – per ragioni con cui pure alle nostre longitudini possiamo facilmente empatizzare. POP ポップ , in questo senso, appare come una narrazione completa, racconta cioè una storia di cui conosciamo – o meglio: stiamo vivendo – la fine. La seconda ragione è che Matt Alt è molto abile nel mettere insieme i pezzi, ossia nel mostrare come ogni invenzione giapponese sia legata alle precedenti.
Un caso esemplare in questo senso è il clamoroso successo dei Pokémon: a prima vista inspiegabile, diventa quasi ovvio nel momento in cui si realizza quanti diversi aspetti della cultura nipponica siano racchiusi in loro: la ricchissima mitologia della religione e del folklore giapponese, che conta milioni di divinità, creature, numi e spiriti; i kaiju, i mostri giocattolo come Godzilla per cui i bambini giapponesi andavano pazzi negli anni Sessanta; e i Tamagotchi, grazie ai quali all’inizio degli anni Novanta quello strano bestiario trovò per la prima volta un posto all’interno di schermi piccolissimi. Come nota Matt Alt: «Benché in formato tascabile, i Pokémon hanno i kaiju nel proprio DNA: creativamente nel loro aspetto mostruoso, concettualmente nel loro battersi tra loro, e affaristicamente nel loro modello di business basato sull’essere vari e collezionabili».
Infine, è bello che Matt Alt si sia messo sulle tracce, quando possibile, dei protagonisti delle vicende, finendo così in luoghi allo stesso tempo banali e leggendari come la cucina dell’inventore e brevettatore seriale Negishi Shigeichi, ovvero il luogo in cui si è tenuto il primo karaoke party al mondo. Se dopo aver aperto le porte di casa vostra al Giappone per una vita intera volete ricambiare la visita, per mettervi in pari probabilmente è anche in posti del genere che dovreste finire.