È una faccenda di termini e di significati che rischiano di scolorire trascinandosi via il nucleo: “sorellanza”, traduzione a volte imperfetta di quella “sisterhood” fondamentale e guerriera di alcune battaglie femministe, una parola giustamente recuperata, ha finito per essere logorata come una coperta bonaria sotto cui nascondere spigoli e conflitti dei rapporti tra donne, dentro e fuori i femminismi. Rapporti spesso abitati da ripensamenti e sensi di colpa, da dissensi e fiammate, pervasi da una stima sottintesa, talmente forte ma anche talmente assodata da poter lasciare spazio a sentimenti più rischiosi e violenti. Rapporti in cui il confine tra l’invidia e l’ammirazione si permette di essere labile e gli equilibri hanno la libertà di variare, come il precedersi o il camminare insieme sulla strada comune della scrittura. Nelle lettere di Ortese, dove la parola “sorella” ricorre poco, ma in momenti precisi, in relazione all’amica Pezzoli, e più spesso, con timbri variabili, con riguardo alle parentele biologiche, la sorellanza torna a essere misura del mondo femminile come fondamento di una relazione scintillante ma non banale fra soggettività irriducibili; non a caso Vera gioia è vestita di dolore è curato da Monica Farnetti, che di questa parola è storica ed epistemologa. Accostarsi a queste pagine significa predisporsi all’incontro con due entità che splendono insieme ma restano separate, anche se, vista l’impossibilità di recuperare le lettere di Mattia, è solo la voce di Anna Maria a risuonare forte, lasciandoci nella curiosità del contraltare.

È confortante leggere i frequenti “scusami”, “perdonami”, rivolti da Ortese all’amica, la studentessa con cui si sente a suo agio, tanto da lasciarsi andare a intense confessioni sui propri stati d’animo, senza però dimenticare di mettere dighe alle esondazioni più emotive. È confortante scoprire con lei che non siamo mai tutte davvero dalla stessa parte: di qua ci sei tu, di qua ci sono io, e se eccedo nel dilagare, nell’inondarti, nel proiettare me su di te, poi mi tocca un passo indietro: se io esisto troppo, tu non puoi esistere davvero. Ed è dolce scoprire che quella Ortese severa e geniale, che fa letteratura in ogni frase, voleva, a volte, solo essere un po’ meno sé stessa.