L’idea iniziale che ha portato a “Libri per adulti” era parlare con chi si sta affacciando sul mondo adulto dopo la pandemia e in mezzo al caos di questi anni, ma poi ho scelto la letteratura come pretesto, pensando che i grandi romanzi sono un bel modo per creare connessioni, ci danno un grande spazio in cui muoverci per parlare della vita e del mondo.

Italo Calvino ha scritto che «Un classico è un libro che non ha finito di dire quel che ha da dire». Aggiungo una mia definizione complementare: «Un classico è un libro che nessuno sta cercando di venderti». Oggi, è una cosa non da poco. Infatti, se su cosa sia davvero un “classico” esistono grandi e importanti discussioni, l’utilità della categoria è evidente e la riassumerei così: se troviamo in libreria Emma di Jane Austen, è sicuro che, a meno che non sia appena uscita l’ennesima trasposizione per il cinema, nessun ufficio stampa abbia dovuto perdere tempo a trovare un modo di fartelo comprare. Emma sta lì e basta. Cosa che non si può dire delle uscite contemporanee. Le uscite contemporanee sono qualcosa che assomiglia molto a tutto ciò che vediamo pubblicizzato ovunque: qualcuno vuole venderti il prodotto che è in grado di fare, e sta cercando il modo per propinartelo. I libri di chi non c’è più, e da tanto, continuano a tornare in libreria semplicemente perché qualcuno glielo chiede. Questa è già da sola una buona ragione di leggerli. Hanno meno il sapore di un prodotto che quello di un frutto succulento che continua a crescere e cadere dagli alberi atterrandoci in grembo.

Certi libri restano, è vero, perché hanno tanto da dare. Se si leggono solo questi libri per un po’, si può fare esperienza di un senso vertiginoso di intelligenza, bellezza e complessità che ti trasforma. L’ho scoperto a ventitré anni, quando, su consiglio di mio padre e di un caro amico decisi di passare un po’ di tempo nella compagnia esclusiva di romanzi tascabili di gente morta. Lo facevo per diventare uno scrittore, e in effetti la mia scrittura si ritrovò radicalmente migliorata senza che facessi alcuno sforzo di imparare tecniche di scrittura o generalizzazioni sulla forma romanzo. Ritrovatasi davanti a milioni di frasi composte tutte a una certa vibrazione molto alta, la mia scrittura fragile a poco a poco – ma rapidamente – si abituò a cercare una certa tensione, una certa complessità; a fare a meno, soprattutto, di una serie di scorciatoie facilone e di colpi ad effetto.

Cos’è questa vibrazione? E come può aiutarci a vivere, a evolvere come persone? Per provare a rispondere devo tornare alla spiegazione convoluta cui accennavo sopra – perché è importante leggere i classici? La mia spiegazione ruota sempre intorno a un concetto: la conoscenza del grande romanzo degli ultimi duecento anni ti dà potere. Ti regala strumenti per capire i codici della società. La ragione sta nella sua forma e nel motivo per cui si è affermato. Il romanzo moderno è una forma bassissima d’arte – un fascio di cose dette con i registri della vita di tutti i giorni, che raccontano prevalentemente storie della società fluida nata con la fine dell’Ancien Régime. È uno strumento duttile di catalogazione che l’Europa usò al culmine del suo sviluppo per archiviare una quantità di conoscenze e informazioni eterogenee. Il grande romanzo ottocentesco è un ritratto di conflitti di classe, una storia dell’industria e dell’urbanizzazione, un assistente amanuense e certosino delle scienze umane via via che si vanno sviluppando, un manuale collettivo di satira: insomma, una commedia umana – come capì uno dei rivoluzionari del formato, Balzac – nell’era della sua riproducibilità tecnica.

Perché dico che la lettura del grande romanzo degli ultimi due secoli dà potere a chi lo legge? Torniamo al formato. La prosa non si fa con niente che non sia il pensiero. Non usa l’armonia, il colore, la materia, il legno di uno strumento o di un pennello, la pietra da scolpire, la voce umana. Usa solamente la nostra capacità di ricordare il mondo usando le parole per documentarlo. Il grande romanzo regala a chi legge, specie se giovane, un corso intensivo in dinamiche di potere, struttura del mondo, funzionamento delle gerarchie sociali. Uno degli strumenti principali del romanzo infatti è il gioco dei registri: il direttore d’azienda parla in un modo, l’impiegato in un altro, il risultato è commedia e satira. Le dinamiche della gerarchia del potere amministrativo nei racconti e romanzi russi dell’Ottocento sono una scuola imbattibile per imparare a non credere a chi usa il birignao per fregarci e dominarci. Se ieri c’erano i tormentatori dei personaggi sfortunati di Gogol e Dostoevskij, oggi c’è chi dice “mindset” e “bamboccioni”.

Questa capacità del romanzo di farci passare ore e ore (spesso noiose, va detto) a sviscerare temi e dinamiche con cui un film sa affascinarci in cento minuti, che una canzone e un quadro sanno riassumere in un lampo, ci permette di capire quanto, appunto, sia prosaica la vita della società, e quanto ci sia da imparare su come funziona. Le serie tv hanno lo stesso vantaggio, in termini di ore, ma la differenza è che chi scrive un romanzo, in solitudine, può approfondire il discorso a un livello cui le complicate dinamiche di produzione della tv solo in rari casi riescono a spingersi, preferendo, per ragioni di scala economica, blandirci con un intrattenimento meno indigesto di quanto non sia il capolavoro medio della storia della letteratura.

Non ho mai scritto queste cose prima d’ora. Lo faccio adesso che mi capita di frequentare una generazione cresciuta tra i coprifuoco e i social media. Ho grande rispetto per tutto ciò che chi ha vent’anni fa per sottrarsi allo sforzo perpetuo con cui la società ci spinge a conformarci. Proprio per questo motivo consiglio di sparire dal mondo ogni tanto per leggere Gogol’ e George Eliot, Morante e Kafka. Immergendosi nei loro libri, una mente giovane può ritrovare grottescamente confermati i sacrosanti sospetti che nutre nei confronti del mondo adulto, e cercare magari di inventarsi un sistema per cambiarlo.

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