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L’angelo Gabriele detta il Corano. Il Profeta ascolta il testo, talvolta addirittura lo vede. Poi a sua volta detta ai seguaci. Nella prefazione al Corano da lui tradotto nel 1955, Alessandro Bausani spiega: «Non solo la iniziale misteriosa “ispirazione” più o meno vaga della Parola spetta a Dio, ma persino la forma esatta delle parole, il loro ordine, la loro dichiarazione e spiegazione in forme intellegibili agli uomini». Per il Profeta Muhammad — Maometto — si trattò di un’esperienza «teopatica», dal greco pateo scritto con la lettera tau, «frequentare», «percorrere», dunque di visitazione divina. La dettatura angelica gli procurava «fenomeni di febbre, di freddo e di tremito». Ancora con Bausani: «Quando veniva investito dalla Rivelazione divina», il Profeta «cadeva febbricitante a terra e gridava zammiluni, zammiluni, “avvolgetemi in un manto!”». Per una tradizione lunga quindici secoli, il Corano è dunque «increato»: sottratto a ogni contingenza umana, immutabile e immutato, attributo di Dio nella forma e nel contenuto. La sfida è di conseguenza enorme per chi si propone di comprendere il Corano nel contesto in cui fu prodotto e recepito.
Dal mese scorso il pubblico italiano ha a disposizione un esempio unico in proposito nella Storia del Corano curata da Mohammad Ali Amir-Moezzi e Guillaume Dye (Mimesis, collana Mnesis, curatore dell’edizione italiana e traduttore è Silvano Facioni). Nelle 1.054 pagine del volume, i ventuno autori applicano al testo sacro dei musulmani l’approccio filologico-storico; ne ricostruiscono, come indica il sottotitolo, Contesto, origine, redazione. Il libro nasce da un’opera più ampia intitolata Le Coran des historiens, il «Corano degli storici», pubblicata in 3 volumi da Les éditions du Cerf nel 2019. Dell’opera, il libro appena uscito riproduce il primo volume rivisto e aumentato da due nuovi capitoli, e pubblicato sempre da Cerf nel 2022 (Histoire du Coran. Contexte, origine, rédaction).
Agli antipodi del Corano senza contesto della tradizione, il Corano degli storici è la storia, specifica l’introduzione, di «un documento storico, letterario, linguistico e religioso del VII secolo», il cui testo raggiunge soltanto verso il X secolo la forma oggi riconosciuta dai musulmani. Gli autori del volume, tra cui i curatori, si sentono eredi di due secoli di elaborazione storico-critica occidentale sul Corano, in particolare degli studi fioriti nel mondo anglosassone negli anni Settanta e anche altrove negli ultimi decenni. Tra i ricercatori si è consolidato un consenso su alcuni punti chiave come la consapevolezza della «natura altamente problematica della credibilità storica delle fonti musulmane», la necessità di «integrare criticamente» nello studio del Corano le fonti non musulmane, soprattutto quelle contemporanee al Profeta, di conoscere filologicamente le «lingue bibliche» (tra cui ebraico, aramaico/siriaco, greco, latino, etiopico) e le lingue dell’Arabia preislamica, nonché i testi religiosi della tarda antichità nella vasta regione che oggi chiamiamo Vicino e Medio Oriente. Ancora, è fondamentale conoscere «la distinzione tra il movimento religioso di Muhammad e la costituzione dell’islam come religione istituzionale», e il ruolo di ’Abd al-Malik, il quinto califfo omayyade, «nella nascita dell’islam come religione dell’impero» e nella stessa elaborazione del Corano.
Se il principio stesso dell’opera degli studiosi — la storicità del Corano — è una sfida epocale, gli esiti della ricerca non lo sono di meno. Si disegna infatti un Corano quasi indipendente dalla figura storica di Muhammad, circolato in una pluralità di versioni ben maggiore rispetto a quella accettata di norma, costituito più che da «un libro» da «un corpus» estremamente eterogeneo, risultato di una profonda contaminazione con fonti di altre religioni e frutto di una determinata strategia politica.
Sentito da «la Lettura», il curatore Guillaume Dye prende le mosse dalla differenza tra il lavoro dei teologi e quello degli storici per far notare quanto sia difficile fare i conti con le fonti per i musulmani, il cui sistema di fede si basa su una «teologia del dettato». Gli storici, precisa Dye, studiano gli autori del Corano e mettono in discussione persino il suo legame con il Profeta; per l’islam tradizionale, di contro, il concetto stesso di autore del Corano è problematico e comunque da ricondursi al solo Allah.
Cinquantenne, francese, islamologo presso l’Université libre de Bruxelles, Dye pare scettico circa il dialogo con chi oggi occupa posizioni di responsabilità teologica nel mondo arabo-musulmano. Sottolinea la poca libertà accademica e la pressione politica dei ricercatori. Nota tuttavia che «le idee passano» e che a ogni modo, dopo tanta ricerca occidentale, «ora tocca ai musulmani». L’altro curatore, Mohammad Ali Amir-Moezzi, anch’egli sentito da «la Lettura», si dice convinto che si possano edificare ponti tra credenti e storici. Sessantotto anni, di origine iraniana sciita, professore all’École Pratique des Hautes Études di Parigi, Amir-Moezzi non nasconde le resistenze insite nell’approccio islamico, soprattutto di parte sunnita. Menziona in tal senso la critica alla Storia del Corano da parte di al-Azhar, il prestigioso ateneo del Cairo, ma insiste sugli scambi fecondi da lui avuti in merito al libro con tanti intellettuali, anche credenti, del mondo musulmano. Del resto, chiosa, «l’islam è plurale ed è sempre stato plurale».
In apertura, i due curatori insistono sulla natura «civica e politica» della loro iniziativa, diretta al «più ampio pubblico possibile». Contro islamofobi e islamisti, «per calmare gli animi, ridurre le tensioni, neutralizzare i fanatismi e le incomprensioni», scommettono sull’approccio scientifico, «con tutta la sua freddezza e il suo distacco». È vero che il metodo storico è percepito dai musulmani come una «minaccia per la fede», Amir-Moezzi confessa a «la Lettura»; e tuttavia esso può «mettere in discussione delle credenze», non certo «la fede stessa». All’uscita della versione originale dell’opera nel 2019, la polizia chiese alla casa editrice parigina di rafforzare le misure di sicurezza. Meno appariscente delle caricature di «Charlie Hebdo», meno spettacolare, il Corano degli storici è in realtà ben più dirompente. Va confinato, confutato, boicottato, per salvare l’esperienza «teopatica» del Profeta? O saranno proprio le sue prossime edizioni a fare ancor più grande l’islam?