Un ribaltamento fra vittima e carnefice. La regia mediatica ordita da Hamas punta a rovesciare la narrazione: mostra l’agire cadenzato e sincronizzato dei propri miliziani, professionali e impassibili nell’azionare batterie di artiglieria e droni  Ci consegnano l’iper-realtà delle videocamere montate sui parapendii, mentre gli incursori, inarrestabili, si fanno largo con le mitragliatrici. Una soggettiva da videogame, le cui riprese sono un’arma e il cui obiettivo è la costruzione della legittimità politica. Non l’immagine della vittima, ma quella di un esercito all’offensiva, vittorioso. Fotogrammi puliti, che allontanano dal cliché del linciaggio, dell’esaltazione per i corpi trascinati nella polvere.

LO SHOCK prende forma dalle immagini del terrore che dilaga, uccidendo indiscriminatamente. Vive nel dubbio angoscioso che la deterrenza fosse una chimera, e che tutto potrà ripetersi. Fra gli scopi dell’offensiva, la caccia agli ostaggi: catturarne un numero tale da frenare la risposta, obbligando a negoziare. Ed eccoli in video, gli ostaggi, esposti da Hamas stesso: signore anziane frastornate, il tremore delle soldate, i corpi-trofeo delle sopravvissute alla maledetta festa nel deserto (260 morti), frequentata da attivisti contrari all’Occupazione. Le abbiamo viste tutti: la ventenne che implora, trascinata via; la ragazza ammanettata, spintonata dentro un veicolo, i vestiti insanguinati fin sulle parti intime; e poi la giovane tedesca esanime, riversa su un pickup, fra miliziani festanti che gridano Allah akbar. E il video-supplica della madre, che la riconosce grazie ai tatuaggi e ai capelli rasta. Ma non ci sono solo le riprese di Hamas: ci sono le videochiamate disperate, le bambine paralizzate dal terrore, le esecuzioni filmate dalle auto nel parcheggio del rave.

SONO FOTOGRAMMI che sfuggono al tentativo di ribaltamento d’immagine, lo contraddicono. Eppure, a guardar meglio, ne sono un tratto costitutivo. Sfuggono, perché nella realtà l’offensiva vittoriosa, che espugna il comando militare israeliano, si trasforma in un cieca carneficina; eppure ne sono parte, perché da sempre – strutturalmente – il racconto di guerra è storia del combattimento sul corpo delle donne, la difesa delle “nostre donne” e lo sfregio delle “loro donne”. Non vedremo Hamas punire i colpevoli delle violenza sulle donne-bottino di guerra, mentre – riflettendo sull’inevitabilità della violenza nel tumulto della Storia – molti, a diverse latitudini, sono pronti a soppesare la gravità di questi crimini con quella dei crimini – sempre più efferati – perpetrati dall’Occupazione.

IMPERVERSA in Italia una lettura di questo orrore che si può definire essenzialista e razzializzata: come già per la violenza jihadista, essa tende a rappresentare le atrocità sul corpo delle donne come prodotto dell’Islam, della supposta cultura tribale degli arabi e dei nomadi del deserto. Abbiamo dimenticato gli stupri di massa sulle donne musulmane durante in Bosnia e quelli, recentissimi, nel Tigray etiope. Cerchiamo di distogliere lo sguardo da quanto succede ad Haiti, governata da gang e milizie. L’Occidente democratico ha tollerato e tollera, nel Levante, lo sfregio dei corpi delle militanti curde da parte degli alleati turchi, così come quello delle combattenti armene da parte degli azeri. Dal Ratto delle Sabine, che ancora ricordiamo come atto fondativo, l’umiliazione violenta del corpo femminile reca con sé il codice invariabile del discorso militarista, patriarcale e disumanizzante: il nemico non è abbastanza virile per proteggere le sue donne, non merita riproduzione.

Dopo aver simulato accondiscendenza, Hamas capitalizza la propria popolarità con una narrazione violenta contraddittoria, che riduce la liberazione palestinese a sé stesso e alle proprie capacità. Il prezzo di questa riduzione viene in larga parte scaricato sulle donne. Non è questa la sede per discutere del ruolo che esse hanno nella società, nelle istituzioni e nelle mobilitazioni del campo israeliano o di quello palestinese. Ma non può sfuggire la centralità delle immagini delle ragazze-ostaggio rispetto alla giustificazione della violenza che ci attende: il ministro della Difesa, Gallant (ex commando) parla di «regole della guerra che sono cambiate», cercando una discontinuità nella risposta violenta che si abbatte sulla popolazione di Gaza.

DALLA SUA CELLA in Iran, l’attivista-Nobel per la Pace, Narges Mohammadi, denuncia il crimine di apartheid femminile. Alle Nazioni unite s’impantana l’agenda “Donne, Pace, Sicurezza”, che la risoluzione 1235, adottata all’unanimità nel 2000, propone come cardine delle politiche del XXI secolo. In Italia nemmeno si discute di politica estera femminista, mentre riecheggia quel «non vi lasceremo sole» indirizzato alle donne iraniane, alle sudanesi, alle afghane. Il Pakistan annuncia l’espulsione di quasi due milioni di afghani: chiediamoci quanta «dimensione di genere» c’è fra i rifugiati che rifiuteranno di tornare sotto i Talebani – e probabilmente cercheranno, a rischio della vita, di superare la deterrenza delle barriere che li separano dall’Occidente.