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Lo scontro di questi giorni sul Programma Nazionale Aree Interne è l’ennesima rappresentazione di un copione stanco: da un lato le accuse alla “destra di governo” che programmaticamente abbandonerebbe i territori marginali; dall’altro le controdeduzioni della maggioranza che rinfaccia al centrosinistra responsabilità passate e accuse “strumentali”. Risultato? Tutti si danno la colpa. Nessuno si assume la responsabilità. E il cerino resta, come sempre, nelle mani delle comunità locali, dei sindaci di piccoli comuni, dei cittadini che resistono tra spopolamento, servizi che scompaiono, opportunità che mancano.
Questo gioco delle parti – sempre più ripetitivo, sempre più autoreferenziale – non serve a nulla. Se non, forse, a leccarsi le ferite quando tutto sarà davvero finito. È il momento di dirlo chiaramente: il problema non è il Piano in sé, né l’appartenenza politica di chi lo scrive o lo approva. Il problema è l’approccio. L’idea – sbagliata – che le aree interne siano un problema da accompagnare verso la fine, un peso da gestire con razionalità contabile, un destino inevitabile da “mitigare”.
Ma chi scrive questi documenti, chi li difende o li attacca, conosce davvero le realtà di cui si parla? Sa cosa si muove nei territori definiti “marginali”? Ha visto le energie, le intelligenze, le imprese artigiane, le sperimentazioni culturali, le economie di filiera, le reti solidali, le risorse ambientali e sociali che popolano le aree interne d’Italia? O continua a ragionare per astrazioni e medie statistiche, per deficit e tassi di decrescita, per mappe cromatiche e indici sintetici?
La verità è che il dibattito resta chiuso in una gabbia di pensiero centralista, urbano, verticale. Si continua a discutere se convenga salvare i territori o lasciarli andare, come se fossero zavorra. Nessuno rovescia davvero la prospettiva. Nessuno parte dalla domanda giusta: e se le aree interne fossero una delle chiavi per il futuro del Paese, non una sua zoppicante appendice?
Le politiche pubbliche – europee, nazionali, regionali – parlano di “transizione ecologica”, “sviluppo sostenibile”, “rigenerazione territoriale”. Ma non c’è transizione possibile se si ignorano i luoghi dove si produce energia pulita, dove si conserva biodiversità, dove si rigenerano boschi e paesaggi, dove si può sperimentare una nuova forma di abitare, lavorare, vivere. Le aree interne non sono aree marginali. Sono aree centrali per un nuovo equilibrio tra natura e società, tra economia e giustizia territoriale.
Chi vive e lavora da anni nelle aree interne sa bene che il problema non è la mancanza di idee, di energie o di voglia di fare. È, piuttosto, la solitudine. Troppo spesso questi territori sono lasciati a sé stessi, costretti a inventarsi strategie con risorse minime, a rincorrere bandi discontinui, a gestire in solitaria emergenze complesse. Tutto questo mentre a livello centrale si continua a parlare di “declino programmato”, di “razionalizzazione” dei servizi, di “accompagnamento” alla marginalità. Un linguaggio che, di fatto, certifica l’abbandono anziché contrastarlo.
Il punto, allora, non è difendere o attaccare un piano. È cambiare metodo. Serve una governance che parta dai territori, non che li classifichi dall’alto. Serve coinvolgimento reale, non consultazioni formali. Serve misurare la “vivibilità” e la “capacità di rigenerazione” di un’area, non solo la sua decrescita demografica. Serve investire in servizi di base, certo, ma anche in scuola, cultura, ricerca, giovani. Serve visione.
Chi lavora nelle aree interne non chiede compassione né assistenza, ma strumenti stabili, infrastrutture adeguate, alleanze durature tra istituzioni, imprese e cittadini. Non serve l’ennesimo documento che certifica il fallimento. Serve la volontà politica di ricostruire un Paese da tutte le sue parti, non solo da quelle più visibili.
Ci vuole poco per cambiare rotta. Ma ci vuole coraggio. E ci vuole una politica che smetta di rinfacciarsi il passato e cominci, finalmente, a costruire il futuro. Non nei convegni. Nelle comunità.