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L’esperienza del centrosinistra italiano nelle recenti candidature regionali rivela uno dei problemi più spinosi della politica contemporanea: come conciliare la necessità di vincere le elezioni con la coerenza dei propri principi. Una contraddizione che oggi, in Italia, sta producendo effetti sempre più evidenti.
La teoria politica classica ci dice che nei sistemi maggioritari i partiti tendono naturalmente ad allearsi per battere l’avversario. È una regola che funziona, ma ha un prezzo. Nel centrosinistra italiano questo prezzo è diventato evidente: per stare insieme a tutti i costi, si finisce per tradire le promesse fatte agli elettori. Prendiamo il caso della segretaria del Pd, arrivata al potere promettendo di liberare il partito dai “cacicchi” e dai notabili locali. Oggi si ritrova a dover fare i conti con gli stessi meccanismi di potere che aveva promesso di spazzare via. L’accordo per far diventare il figlio di De Luca segretario regionale del Pd in Campania è solo l’esempio più clamoroso di questa contraddizione.
Qui si tocca un nervo scoperto della democrazia moderna. Da un lato, una coalizione ampia riesce a intercettare le richieste di più elettori possibili. Dall’altro, quando tutti stanno insieme per forza, gli elettori non riescono più a capire chi è responsabile di cosa. Se il Pd, i 5 Stelle, Avs e Italia Viva dicono tutti la stessa cosa, che differenza c’è tra loro? Il risultato è che la politica si trasforma in una sorta di grande accordo tra dirigenti di partito, dove quello che conta non è più rappresentare gli elettori, ma trovare un compromesso tra le diverse correnti interne alla coalizione. È quello che sta succedendo oggi in Italia, dove le candidature regionali vengono decise più sulla base degli equilibri interni che sulla qualità dei candidati.
La scienza politica moderna aveva previsto questo fenomeno: i partiti diventano sempre più simili a “cartelli”, interessati principalmente a spartirsi le risorse del potere piuttosto che a rappresentare idee diverse. Nel centrosinistra italiano questo processo è ormai evidente. Guardiamo ai 5 Stelle: dopo anni di battaglia contro il sistema, ora si trovano a dover sostenere gli stessi governatori che un tempo combattevano. In Toscana dovranno appoggiare Giani, in Campania scendere a patti con De Luca. Come si spiega questo ai propri elettori? La risposta è semplice: non si spiega, si spera che non se ne accorgano.
Il vero problema è che il centrosinistra italiano si tiene unito non per quello che vuole costruire insieme, ma per quello che vuole evitare: la vittoria del centrodestra. È un’unità fondata sulla paura, non sull’entusiasmo. E la paura, si sa, è un collante fragile. Questo tipo di coalizione produce un “consenso al ribasso”: si elimina tutto quello che divide per tenere insieme quello che resta. Il risultato è una proposta politica sempre più diluita, sempre meno riconoscibile. Gli elettori faticano a capire la differenza tra il prima e il dopo, tra il governo e l’opposizione.
Tutto questo ha conseguenze concrete sulla qualità della democrazia italiana. Quando le coalizioni si formano principalmente per calcoli elettorali, il confronto politico si impoverisce. Le differenze programmatiche spariscono, i dibattiti diventano sterili, gli elettori si disaffezionano. È quello che alcuni studiosi chiamano “post-democrazia”: un sistema che sulla carta funziona ancora come una democrazia, ma dove le decisioni vere vengono prese attraverso accordi sottobanco tra le élite politiche. Il caso delle candidature regionali del centrosinistra ne è un esempio perfetto: tutto si decide nelle stanze dei partiti, poco importa quello che pensano gli elettori.
La domanda è se esista una via d’uscita da questo vicolo cieco. La risposta non è semplice, ma alcune cose sono chiare. Prima di tutto, bisognerebbe rimettere al centro la chiarezza programmatica: gli elettori hanno il diritto di sapere cosa votano. In secondo luogo, bisognerebbe evitare che l’ossessione dell’unità cancelli le differenze politiche: la democrazia vive di confronto, non di omogeneizzazione. Il rischio, altrimenti, è che la politica italiana si trasformi definitivamente in un gioco di palazzo dove l’unica cosa che conta è la sopravvivenza dei partiti, non la qualità della rappresentanza democratica. E questo, alla lunga, non conviene a nessuno: né ai partiti, né agli elettori, né alla democrazia stessa.