L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro è il volume appena uscito presso Meltemi (collezione Biblioteca/Antropologia diretta da Andrea Staid, traduzione di Maria Elena Buslacchi, pp. 174, euro 16) di Jean-Loup Amselle, celebre antropologo e africanista francese. Già nei primi anni Ottanta aveva curato un’opera, insieme a Elikia M’Bokolo, in cui denunciava il tentativo (riuscito) di etnicizzare i popoli africani. Il testo, pubblicato sempre da Meltemi nel 2008, si intitolava proprio L’invenzione dell’etnia. Ma cosa lega i due libri? Quali sono le tesi di fondo che li accomunano? Certamente quelle tesi che convogliano a una critica delle categorie epistemologiche, diremmo pseudo-conoscitive, attraverso cui i teorici dell’imperialismo occidentale avevano esercitato la loro influenza nell’Africa subsahariana.
Nel libro più recente di Amselle a essere presa in causa è, infatti, l’opera di rigida etnicizzazione della narrazione saheliana, quella avviata verso la metà del XIX secolo, che ha definito uno spazio culturale caratterizzato da tre popolazioni: quella «bianca» costituita dai tuareg, quella «rossa» i cui rappresentanti sarebbero i peul (o fulani), musulmani e infine quella «nera» costituita dalle varie etnie autoctone. Sarebbe stata proprio questa etnicizzazione della narrazione ad aver contribuito – come afferma l’antropologo Marco Aime nella prefazione – «a irrigidire queste categorie, che, invece, come ci ha dimostrato Amselle fin dai suoi primi testi, sono fluide, mobili, instabili, soggette a cambiamenti dettati dalla storia».
Il volume, diviso in sei capitoli, tratta anche dell’influenza occidentale nei confronti degli Stati nazionali nati a seguito delle lotte per l’indipendenza e a quello che l’autore definisce un «fallimento militare e diplomatico in quell’area» da parte della Francia, dedicando la seconda parte del testo a un’analisi dettagliata delle questioni relative all’escissione e all’omosessualità.
Jean-Loup Amselle compone la breve conclusione a questo testo densissimo alludendo alla missione etnografica condotta da Marcel Griaule da Dakar a Gibuti tra il 1931 e il 1933, a cui prese parte anche lo scrittore francese Michel Leiris. Tramite Leiris, Amselle abbozza una nuova definizione di quello che chiamiamo il Sahel: il titolo del diario di viaggio di Leiris è, infatti, L’Afrique fantôme. Sarebbe questa, secondo Amselle, la miglior definizione possibile della «fascia» coloniale longitudinale che si estende dall’Atlantico al Mar Rosso, «perché il Sahel, categoria nata per designare la regione che si estende tra il Sahara e la savana ’sudanese’, è in effetti una realtà spettrale, ibrida, mista».
La definizione Sahel è una pura invenzione della potenza coloniale francese, utilizzata per la prima volta all’inizio del XX secolo. Può spiegarcene i motivi?
La conquista e la colonizzazione dell’Africa occidentale (W.A.F.) ha comportato lo smantellamento delle catene nord-sud di società ed economie che si estendevano dal Maghreb al Golfo di Guinea e attraverso le quali passava la maggior parte dei prodotti commerciati prima della colonizzazione: oro, schiavi, salgemma, ecc. Il botanico francese Auguste Chevalier, che esplorò questa regione, la caratterizzò diversamente, secondo un orientamento ovest-est partendo dal Senegal, in modo da delimitare una zona «bioclimatica» basata sulla presenza di una fauna e di una flora specifiche; e caratterizzata da un certo tipo di precipitazioni. L’obiettivo era quello di «valorizzare» l’intera area, cioè di definire i tipi di piante (cotone, arachidi, ecc.) e di animali che potevano prosperare in quella zona. Si tratta dell’antenato del concetto di «sviluppo».

La divisione di spazi e popolazioni creata dall’immaginario coloniale continua a strutturare il nostro pensiero, ostacolando la comprensione delle questioni politiche locali. Ma anche le azioni. Può indicarci perché ciò ha a che vedere anche con l’operazione «Barkhane»?
L’operazione «Barkhane», come già il nome suggerisce, nasce dalla visione del Sahel da parte dello stato maggiore francese, una visione largamente influenzata dalle idee dello storico francese di estrema destra Bernard Lugan, che ha insegnato all’École de Guerre. Secondo questa visione, il Sahel è teatro di una netta opposizione tra popolazioni «bianche», i Tuareg, popolazioni «rosse», i Peul, e popolazioni «nere», i Malinké, i Bambara, i Dogon, i Mossi, ecc. Dall’indipendenza, queste popolazioni «bianche», «rosse» e «nomadi» sono sempre state sotto il controllo di quelle «nere» e sedentarie del sud. Questa concezione spiega il costante sostegno dato dai militari francesi, spesso di origine aristocratica, ai nobili guerrieri tuareg con i quali si sono sempre più o meno identificati.
Da qui la diffidenza delle popolazioni meridionali, che sospettavano che la Francia sostenesse l’Azawad (il Paese dei tuareg) e volesse così dividere l’entità territoriale maliana isolandone la parte nord-orientale, che si supponeva ricca di vari metalli. Questa autonomia, più o meno ratificata dall’Accordo di Algeri (2015), è attualmente messa in discussione dalla Coordination des mouvements de L’Azawad (Cma), che approfitta della partenza della Barkhane e della Minusma (la missione militare dell’Onu in Mali) per affrontare l’esercito maliano. Questa diffidenza è certamente alla base del desiderio della giunta maliana di vedere la forza di Barkhane lasciare il paese.

Se da una parte il multiculturalismo tra gruppi etnico-razziali è caldeggiato, dall’altra sono invece le tensioni per l’accesso alle risorse che raccontano o molto bene gli attuali scontri in Mali. Può darcene conto?
Più che gli antagonismi etnici o religiosi, sono spesso le questioni economiche legate a determinate risorse a spiegare gli attuali scontri tra le diverse «comunità». Ad esempio, l’espansione delle terre coltivate a nord dell’intera zona saheliana e la concomitante riduzione del territorio percorso dai pastori transumanti spiega molto bene i cosiddetti conflitti etnici tra i Peul, i Dogon e i Bambara. Allo stesso modo, vedere tutti i Fulani come jihadisti e tutti i Dogon come puri pagani è del tutto fuorviante, poiché tra questi ultimi ci sono molti musulmani e alcuni villaggi dei Dogon sono addirittura wahhabiti. Ma anche in questo caso ci troviamo in una prospettiva coloniale che enfatizza l’aspetto etnico e religioso per negare la storicità politica ed economica dell’Africa «subsahariana».

Nel suo libro lei spiega che dal punto di vista artistico la «preferenza africana» da parte del milieu intellettuale francese risente di un grado di condiscendenza legato da una parte al manifestare il proprio antirazzismo; dall’altra essa risente anche di un certo esotismo. Può mostrare come questi due intenti camminano insieme?
In realtà, queste due intenzioni vanno di pari passo, perché «amare» l’Africa e gli africani è altrettanto razzista che detestarli. Ma ciò che piace agli ambienti politici e mediatici francesi sono gli intellettuali e gli artisti africani «buoni», quelli che io chiamo gli «intellettuali di corte», cioè quelli che difendono sia lo stile della lingua francese sia i valori della civiltà occidentale di fronte alla presunta natura regressiva delle culture saheliane (omofobe, che praticano l’escissione e i matrimoni forzati). Ma dobbiamo essere consapevoli che più i Paesi e le Ong occidentali promuovono l’espressione pubblica dell’omosessualità e condannano, ad esempio, l’escissione e i matrimoni forzati, più le società e i governi che si affidano a loro prenderanno posizione e difenderanno i «valori essenziali» delle culture africane, soprattutto nell’attuale clima di esacerbazione dei nazionalismi in tutta l’Africa.