Ha documentato controculture, guerre e pandemia. Ritratto di Alex Majoli, in mostra a Modica
diMaurizio Fiorino
«Quando una macchina fotografica entra in scena, ho ripetutamente scoperto, tutti noi adottiamo istintivamente dei ruoli fissi: io quello del fotografo e coloro che vengono fotografati il ruolo dei personaggi che danno forma alle nostre narrazioni. Indossiamo maschere che si adattano a questi ruoli fissi – riflette a voce alta Alex Majoli – e, in questo modo, esistiamo intrappolati nel nostro stesso gioco». Tanto basterebbe, se si volesse, a raccontare queste sueCronache, ovvero l’ampia retrospettiva che, fino al 15 ottobre, occupa diverse sale dell’ex Convento del Carmine, a Modica. Parliamo di maschere e l’accostamento siciliano con Pirandello – il suo sfidare il pubblico a discernere la realtà dall’illusione – verrebbe naturale se Majoli stesso, omeglio la sua opera, non fosse una, nessuno e centomila: imponente e invisibile; definitiva e aperta al dialogo con lo spettatore; solenne, quasi estranea, eppure, vedendola, si ha la sensazione che quelle foto siano parte del nostro vissuto.
Anni fa, durante una lectio magistralis a Milano, Majoli ragionò a largo sulla sua attività di fotografo. A un certo punto disse qualcosa che suonava pressappoco così: il fotografo non deve fermarsi davanti a nulla, non è un medico, se va in guerra, non può far niente per salvare un uomo ferito ma può fotografarlo. Abbiamo semplificato, certo, eppure, mentre scorrevano le sue immagini, il pubblico – chi scrive era tra i presenti – rimase di pietra: «Per non aggiungere fraintendimenti, intendo dire questo: dal momento che ho deciso di prendere un aereo e andare a fotografare le vite di altri uomini, donne e bambini, sia in guerra che non, ci vado per un motivo specifico, quello di documentare la loro vita. C’è trasparenza nella mia decisione di partire. Il ruolo o la parte da recitare è quella del fotografo. Chiaro è che, se mi trovassi davanti a qualcuno che ha bisogno ed io fossi l’unico presente, metterei la macchina fotografica da parte e cercherei di fare il possibile. Il fotografo è una professione seria, non un hobby» spiega Majoli.
Torniamo a Modica: cento opere suddivise in scatti singoli, trittici, polittici. Coprono simbolicamente un’intera carriera fotografica – dagli skaters di Ravenna negli anni ’80, alla pandemia – e il concetto di teatro, oltre a quello pirandelliano, prende spunto da Artaud e da Sant’Agostino. «Penso che stiamo dimenticando chi siamo in quanto individui e stiamo ricorrendo a modelli preconfezionati – dice – e il motivo è semplice: abbiamo sempre più paura di vivere. Dovremmo tornare alla banalità del guardare le stelle di Aristotele o Dante». Eppure, nonostante il concetto di farsa che traspare nei suoi lavori, soprattutto i più recenti, è sempre visibile una certa complicità tra fotografo e fotografato: «Quell’intesa c’è sempre, ma non bisogna mai dimenticare che sia io che il soggetto siamo entrambi parte di un palcoscenico, siamo vicini e viviamo lastessa vita, lo stesso attimo al di là di chi sta subendo la tragedia. C’è un lavoro che secondo me racconta bene quello che dico: Enjoy the poverty III,di Renzo Marten».
Anni fa, Majoli ha fondato, insieme ad altri fotografi, l’agenzia Cesura. Nel corso del tempo, oltre a essere una fucina di nuovi progetti e artisti, l’agenzia è diventata una sorta di lab, un dialogo costante tra l’old school e il contemporaneo. Chiediamo a Majoli cosa vede, lui, nella prossima generazione di fotografi, se c’è qualcosa che lo colpisce, un tema ricorrente, un approccio nuovo: «Quando sono in giurie o insegno nelle scuole, tolte le foto di autoritratti nudi nei boschi, o quelle della nonna trovate nei cassetti di casa o qualche snap di amici e fidanzati fatti con la Yashica T3, denoto una pigrizia pazzesca nello sperimentare. Trovo i giovani troppo cauti, sempre con un occhio al successo. Spendono immense ore sui social e possono ripetere qualunque immagine che, presa da Instagram, a loro sembra provenire dal loro essere. Io, spesso, domando: “ti diverti a fare foto?”, perché io mi diverto da morire. Ho cercato di farla sempre così, la fotografia. Ogni nuovo progetto è una camminata su una corda a strapiombo. Devo abbandonare le cose sicure per poter fotografare». Sentendo parlare Majoli, vengono in mente le parole di Raymond Depardon, secondo cui la fotografia ha due tempi: quello dello scatto e quello in cui si è pronti a pubblicarlo.
«Ogni occasione di mostra è un’occasione di comprensione del mio lavoro – precisa Majoli – Un conto è avere le foto sul pc, un conto è stampare su carta. Per me l’unica forma della fotografia è quella fisica. Anche quando il budget è assente, bisogna investire tempo in tutto quello che facciamo. Per quanto riguarda Modica: romanticamente è come quella volta che ho visto i CCCP a Ravenna e c’erano cento persone» conclude.
Noi, invece, chiudiamo con un commento che abbiamo letto nel libro degli ospiti: «Bella e paurosa, ma interessante» ha scritto a proposito diCronache, tale Diego. Specificando, una riga dopo, la sua età: 8 anni.