Tutti hanno letto, posseggono o quanto meno ricordano La storia dell’arte raccontata da Ernst H. Gombrich, uno degli storici dell’arte più amati del secolo scorso. Dato alle stampe nel 1950 dall’editore londinese Phaidon, questo «manuale» godette fin da subito di un vero e proprio successo internazionale e ancora oggi rappresenta un unicum per l’editoria dedicata alla storia dell’arte, in quanto libro più venduto al mondo su tale disciplina. Pubblicata per la prima volta in italiano da Mondadori nel 1952 con il titolo Il mondo dell’arte – ma diffusasi soprattutto a partire dal 1966 grazie alla casa editrice Einaudi –, questa mirabile sintesi ha permesso a intere generazioni di neofiti di avvicinarsi alle arti figurative in virtù del suo carattere narrativo e di un linguaggio estremamente chiaro e godibile. Dopotutto, lo storico dell’arte viennese, classe 1909, era provvisto di una predisposizione naturale per la scrittura e già nel 1935 aveva fatto uscire la sua Breve storia del mondo, un altro testo (in questo caso destinato principalmente a un pubblico giovane) entrato nei cuori di molti lettori. A tal proposito, se il talento di Gombrich come divulgatore è oggi universalmente riconosciuto, pur con tutti i limiti che il mondo accademico rimprovera alle sue opere più accessibili, la sua attività come ricercatore, e la sua influenza sullo sviluppo della storia dell’arte, necessitano ancora di essere indagati a dovere.

Formatosi a Vienna, sua città natale, con il grande Julius von Schlosser, Gombrich (1909-2001) svolse la maggior parte della sua carriera nel Regno Unito, dove si trasferì nel 1936 – probabilmente spinto dalle forti correnti antisemite che andavano diffondendosi in area mitteleuropea – per lavorare presso il prestigioso Warburg Institute (che dirigerà dal 1951 al 1976), svolgendo un’intensa attività come docente e conferenziere. Non sono molte le monografie pubblicate da Gombrich, il quale trovò sicuramente nel saggio breve la forma letteraria a lui più congeniale. In effetti, la maggior parte dei suoi libri, vere e proprie raccolte di saggi, sono nati proprio da un lavoro di raccolta e riscrittura dei testi delle sue lezioni, e l’ultimo di questi, frutto di oltre quarant’anni di lavoro, La preferenza per il primitivo Episodi della storia del gusto e dell’arte occidentale, uscito postumo pochi mesi dopo la sua morte, vede finalmente la luce anche in Italia per Einaudi «Saggi» (pp. XX-380, XI-218 ill., euro 35,00), a cura di Lucio Biasiori e con la traduzione di Valentina Palombi.

Come ricorda Lucio Biasiori nell’introduzione al volume, sebbene Gombrich avesse iniziato a interessarsi al «problema del primitivo» già al termine dei suoi anni viennesi, le origini di questo libro vanno ricercate in una serie di studi che egli svolse a partire dalla metà degli anni cinquanta e che furono presentati presso le principali università europee e americane. È l’autore stesso a ricordare, nella sua prefazione, come una di queste conferenze in particolare (Ancient Rhetoric and the Theory of Expression) gli permise di indagare per la prima volta le relazioni fra retorica classica e arti figurative, partendo dagli scritti di Platone, Aristotele e Cicerone. Prendendo le mosse da quella che definisce come la «legge di Cicerone», ovvero il principio secondo il quale «tradizionalmente la storia dell’arte è stata raccontata nei termini di un progresso tecnico nell’imitazione della natura», principio caro a tutta la letteratura artistica occidentale da Plinio al Lanzi, passando per Vasari, Gombrich dimostra come la storia dell’arte sia al contempo caratterizzata da un principio psicologico opposto: «la repulsione nei confronti di quella perfezione verso la quale si riteneva che l’arte dovesse tendere», avversione che coinvolge non solo i suoi fruitori, che si ritrovano ciclicamente a preferire le opere del passato alla produzione artistica contemporanea, ma anche gli artisti stessi. Secondo l’autore lo storico dell’arte deve avere ben in mente tale dualismo e prendere coscienza delle tensioni che ne scaturiscono.

Ripercorrendo le fasi salienti di tale fenomeno, Gombrich si ritrova a confrontarsi con l’evoluzione stessa della nozione di primitivo nel corso del tempo e «mostra come il termine sia stato via via associato ai vasi greci, alla pittura del Quattrocento e all’arte tribale», alle quali potremmo aggiungere, in tempi relativamente recenti, anche forme di espressione artistica insolite, e spesso ignorate, come i disegni infantili. Analizzando questa eterna querelle des anciens et des modernes che caratterizza l’intera storia dell’arte, in questo volume, ancor più che in altri scritti di Gombrich, si assiste quindi a una vera e propria transizione da una «visione evoluzionistica della storia dell’arte» (ancora ben presente nel suo celebre manuale del 1950) «a una concezione relativista, in cui ogni fase è considerata rappresentativa di un particolare modo stilistico».

Prima di concludere, sarebbe interessante chiedersi dove si posizioni un libro come quello di Gombrich all’interno del catalogo della casa editrice Einaudi, la quale, negli ultimi anni, parallelamente alla divulgazione in Italia delle principali novità editoriali di ambito storico-artistico, sembrerebbe aver intrapreso un’attività di ripubblicazione di testi divenuti introvabili e talvolta considerati fuori moda. Il libro di Gombrich si colloca, in effetti, a metà strada fra queste due tendenze, poiché, sebbene inedito nel nostro paese, rimane comunque un libro «vecchio» di vent’anni, nel quale il problema del primitivo, che tanto potrebbe interessare i fautori dei post colonial studies così in voga oggi, non viene assolutamente affrontato attraverso il prisma del colonialismo, fenomeno tuttavia imprescindibile se si analizzano l’arte e la cultura occidentali dell’Otto e Novecento nel loro rapporto con le civiltà extraeuropee. Tuttavia, è doveroso ricordare che le relazioni tra l’Einaudi e Gombrich – la cui storia varrebbe forse l’approfondimento di uno studio monografico – affondano le proprie radici negli anni sessanta, quando fra i principali collaboratori della casa editrice torinese vi era il giovane Enrico Castelnuovo, il quale contribuì in prima persona alla diffusione in Italia delle opere di Gombrich. Fu grazie a lui che vennero date alle stampe le prime edizioni italiane di importanti monografie come Arte e illusione (1965) e Il senso dell’ordine (1984), oltre a numerose raccolte di saggi.

L’attività di diffusione in Italia da parte di Einaudi delle opere dello storico viennese, che nel corso di mezzo secolo ha visto la pubblicazione di una ventina di titoli, continua quindi ancora oggi con la sua ultima fatica. Il saggio poi, nelle intenzioni del suo autore, intende dialogare con almeno altri due titoli del catalogo storico della casa editrice torinese – Il gusto dei primitivi di Lionello Venturi (1972, ma pubblicato inizialmente da Zanichelli nel 1926) e La fortuna dei primitivi da Vasari ai neoclassici di Giovanni Previtali (1964) –, di cui il testo di Gombrich vuole porsi a complemento, affrontando principalmente questioni legate a paesi come Francia, Germania e Regno Unito ed evitando volontariamente di affrontare di petto la questione italiana. A tal proposito, è difficile non commuoversi di fronte alla modestia (o all’ironia?) che sembra trapelare da quelle che furono probabilmente le ultime parole scritte da Gombrich, e che possiamo leggere a conclusione della sua prefazione: «spero solo che, nonostante la concorrenza, mi sia rimasto qualche cosa da dire».