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il retroscena
MARCO BRESOLIN
Chi nel governo italiano spera di ottenere una proroga della sospensione del Patto di Stabilità anche nel 2024 rimarrà certamente deluso: «La clausola di salvaguardia – risponde un portavoce della Commissione europea – sarà disattivata alla fine del 2023». E la riforma del Patto, anche se dovesse essere completata entro fine anno, in ogni caso si applicherà soltanto a partire dall’esercizio di bilancio 2025. Per la manovra d’autunno, dunque, gli spazi sono stretti e sono quelli definiti dai paletti fissati dalle raccomandazioni della Commissione, approvate da tutti i governi (incluso quello italiano) lo scorso 14 luglio: Roma dovrà assicurare un aggiustamento di bilancio in termini strutturali pari allo 0,7% del Pil, vale a dire di 13-14 miliardi. Il Def redatto dall’esecutivo prevedeva di rispettare questo vincolo, ma ora – complice il rallentamento del Pil – i margini si sono ristretti e rimettere in discussione l’impegno rischia di aprire un contenzioso dagli effetti imprevedibili: nelle prossime settimane entreranno nel vivo i negoziati per la riforma del Patto e gli altri governi dovranno dare il loro via libera alle modifiche del Pnrr italiano. Non proprio il momento migliore.
Il prossimo 11 settembre il commissario all’Economia, Paolo Gentiloni, presenterà le nuove previsioni economiche. Le stime di Bruxelles certificheranno un rallentamento dell’economia, che nel suo complesso dovrebbe rimanere in territorio positivo. Per questo, nonostante la frenata in Stati come Germania e Paesi Bassi, più fonti a Bruxelles concordano nel dire che «non ci sono le condizioni per estendere di un anno la clausola di salvaguardia che sospende il Patto di Stabilità».
Al tempo stesso è tecnicamente impossibile pensare di vedere in vigore la riforma del Patto già dal 1° gennaio del 2024. Sotto la guida della presidenza spagnola, a partire da settembre i governi si immergeranno nel negoziato per definire le nuove regole, con la Germania che spinge per fissare un taglio annuo minimo del debito (e il governo di Madrid che sembra intenzionato ad andare incontro a queste richieste). Nella migliore delle ipotesi, la trattativa si chiuderà tra novembre e dicembre, ma poi la riforma andrà negoziata anche con l’Europarlamento. «L’adozione entro la fine del 2023 – spiega a La Stampa un portavoce della Commissione – consentirebbe agli Stati membri e alla commissione di discutere i piani di bilancio (per gli anni successivi) nella prima metà del 2024». Questo vuol dire che «finché queste proposte legislative non saranno adottate, continuerà ad applicarsi l’attuale quadro normativo». Dunque «i documenti programmatici di bilancio degli Stati membri per il 2024 saranno valutati sulla base delle raccomandazioni specifiche per Paese che sono state adottate dal Consiglio».
Per l’Italia questo si traduce in un’indicazione chiara: «Garantire una politica di bilancio prudente, in particolare limitando nel 2024 l’aumento nominale della spesa primaria netta finanziata a livello nazionale a non più dell’1,3%», il che – secondo i calcoli della Commissione – equivale a una riduzione del deficit strutturale (quello calcolato al netto del ciclo economico e delle misure una tantum) dello 0,7% del Pil, al cambio circa 13-14 miliardi di euro. Un obiettivo che secondo il Def redatto ad aprile era alla portata, ma che ora diventa più difficile da raggiungere a causa del peggioramento della situazione economica. Resta da capire se il governo lascerà immutato il valore del saldo strutturale nella nota di aggiornamento al Def prevista per il prossimo mese, e adeguerà la manovra di conseguenza, oppure se deciderà di sfidare Bruxelles discostandosi dalla raccomandazione.
Secondo Irene Tinagli, eurodeputata del Pd che presiede la commissione Affari Economici del Parlamento Ue, la fase transitoria che farà da ponte verso le nuove regole non porterà a una nuova fase di austerità. «Stiamo lavorando da tempo a una maggiore flessibilità – spiega –, sia per la riforma del Patto, sia per il percorso che ci porterà verso la sua entrata in vigore. Ma il vero nodo è: flessibilità per fare cosa?». L’Italia dovrebbe mettere sul piatto «investimenti, riforme necessarie a far partire la crescita e ad attutire l’impatto sociale di alcuni processi di transizione». Ma il rischio è che la corda, se tirata troppo o nella direzione sbagliata, potrebbe spezzarsi: «Se qualcuno nel governo spera in una maggiore flessibilità giusto per poter accontentare alcuni gruppi, limitare lo scontento legato ad alcune politiche sociali molto regressive degli ultimi mesi, o magari pagare alcune promesse elettorali – sostiene Tinagli – allora l’Italia potrebbe presto trovarsi su un sentiero molto stretto che potrebbe anche avere ripercussioni negative sul negoziato vero e proprio della riforma stessa».
Una fonte diplomatica coinvolta nelle trattative condivide questo scenario: «Puntare i piedi per avere più deficit e più flessibilità nel momento in cui è in corso il negoziato sulla riforma potrebbe far irrigidire ulteriormente la posizione dei Paesi che vogliono regole più severe». Per quanto riguarda invece la possibilità di utilizzare la ratifica del Mes come moneta di scambio per ottenere più flessibilità, la stessa fonte taglia corto: «Non esiste: la ratifica dell’Italia è un atto dovuto, non una gentile concessione».
https://www.lastampa.it/
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Pierluigi Piccini
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