“Le persone che non cadono,
in realtà è perché non stanno in piedi”.
Goliarda Sapienza
La prima volta che Janek Gorczyca ha scritto qualcosa della sua vita lo ha fatto in alcune lettere spedite a un amico dal carcere romano di Rebibbia. La seconda su dei quaderni che nel giro di poco sono diventati uno degli esordi letterari più originali e interessanti degli ultimi anni. Storia di mia vita (Sellerio 2024) è allo stesso tempo un’avventura picaresca, una fotografia precisa della vita di strada, il racconto di come il potere possa annientare i corpi più vulnerabili e un’autobiografia senza un aggettivo in più. Ma nel momento in cui incontro Gorczyca è solo un libro nel sacchetto di plastica di un discount, che l’autore si porta dietro come una borsa.
Sessantadue anni, alto e secco come un fiammifero, Gorczyca si muove per le strade di Monte Sacro con un passo lento e sicuro: del quartiere nel nordest di Roma conosce ogni angolo e incrocio, su alcuni marciapiedi durante i moltissimi anni che ha vissuto come senza dimora ci ha dormito, su altri ci ha fatto a botte e su certi ha ricordi preziosi e felici. “Ma conosco tutta città, per mio lavoro di fabbro ho girato tutto”, dice.
Nato nel 1962 in un paese vicino a Stalowa Wola, nel sudest della Polonia, Gorczyca è arrivato in Italia nel 1992 dopo il naufragio di un matrimonio e la rottura con la famiglia. “Con un amico mio stavamo andando in Finlandia. Ma a Danzica suoi parenti che in Italia facevano lavori di raccolta delle frutte ci convincono di venire, allora prendiamo un autobus e veniamo”. Arrivati a Roma vanno a dormire in una struttura gestita dalle suore vicino a San Pietro. Si paga poco, ma i soldi finiscono presto. “Io per mia fortuna trovo lavoro di saldatore in una ditta. Ma poi ho incontrato uno che rubava le macchine. Allora mi ha portato con sé e mi ha detto: ‘Perché tu stai a lavorare per sessantamila lire, se per una notte ti do duecentomila?’”.
Gorczyca accetta, i furti vanno via uno dietro l’altro, i soldi cominciano ad aumentare, ma arrivano anche i primi arresti: “Quello è sbaglio mio. Se io rimanevo con quella vita lì di saldatore mi mettevano in regola e era diverso”. Invece un giorno lo fermano a piazza della Repubblica: “Io praticamente c’avevo l’ufficio al McDonald’s, stavo sempre lì vicino in macchina a fare traffici, la macchina pure quella era rubata e così mi portano per la prima volta a Regina Coeli”.
Lo scarcerano subito ma negli anni in galera ci torna un altro paio di volte, sempre per reati legati a furti, e in alcuni casi per aggressione. Oggi, dopo un ultimo periodo passato in messa alla prova, una misura alternativa alla detenzione che gli hanno dato per vecchi problemi con la giustizia, è ospite di Christian Raimo. È stato lo scrittore, insegnante e attivista a spingerlo a scrivere. “Eravamo in piena pandemia e ospitavo Janek e Marta, la sua compagna di sempre, nell’appartamento dove vivevo in affitto”, racconta Raimo. “Era un periodo complicato per tutti e anche noi cercavamo un nostro equilibrio, cose da fare mentre eravamo costretti a stare chiusi in casa”. È in quei giorni che Raimo si ricorda delle lettere che Gorczyca gli aveva scritto qualche anno prima dalla sua cella a Rebibbia. “C’era qualcosa in quella sua lingua, in certe sue descrizioni di quello che succedeva in carcere, che mi aveva fatto pensare che magari scrivere gli potesse piacere, e che avesse delle cose da dire”.
Gorczyca accetta l’invito e finisce abbastanza in fretta un primo quaderno, scrivendo a mano e in stampatello: poi ne comincia un altro, e un altro, e un altro ancora. Continua anche dopo la pandemia. “Di giorno avevo mio lavoro di fabbro, la sera scrivevo intorno a dieci pagine”, racconta mentre scendiamo verso l’Aniene, uno dei due fiumi della capitale. Dalle finestre aperte di Città Giardino, com’è chiamata questa parte di Monte Sacro, odore di borghesia e bucati fatti dalle signore delle pulizie. In cielo un velo di nuvole grigie e calde.
I quaderni di Gorczyca per un po’ non li apre nessuno, neanche lui. Poi un giorno Raimo decide di leggerli e ricopiarli al computer, e comincia a farli girare tra amici scrittori ed editor di case editrici. Un racconto, sempre autobiografico, finisce sulla rivista Gli asini, fondata da Goffredo Fofi. Altre pagine arrivano invece nelle mani di Mattia Carratello di Sellerio, che capisce di trovarsi di fronte a un libro.
Il lavoro sul testo è allo stesso tempo semplice e complicato. Gorczyca è riluttante a tornare su quello che ha scritto, soprattutto quando gli chiedono di approfondire qualche passaggio o spiegarne altri. “Io avevo tutto in testa, scrivevo diciamo questo che sentivo, quindi a modificare quel mio primo pensiero mi sembrava che non c’era bisogno”, dice.
L’invenzione di una lingua
Il risultato è qualcosa di abbastanza unico nella letteratura italiana di questi anni. L’accostamento più semplice è quello con Terra matta (Einaudi 2007) di Vincenzo Rabito. Tuttavia, le differenze con il libro del contadino siciliano semianalfabeta sono enormi. Basta ascoltare gli incipit dei due libri per rendersene conto. (Uso la parola ascoltare perché in entrambi i casi il suono è fondamentale). Ecco l’inizio di Terra matta:
Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramente Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Burriere Salvatrice, chilassa (classe) 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata.
Ed ecco quello di Storia di mia vita:
Questo sarà un breve racconto di mia esperienza sulla vita per la strada. Tutto comincia nel 1998 di ottobre, io sto in una stanza a Campo dei fiori, contratto di lavoro scaduto, permesso di soggiorno uguale, ho un milione e mezzo di lire in tasca, e penso come riprendere tutto, ma non è facile.
Terra matta è un’opera che in molti giustamente hanno definito “monumentale”: 1.027 pagine scritte su una vecchia Olivetti “senza lasciare un centimetro di margine superiore né inferiore né laterale”. Salvate da uno dei figli di Rabito e poi portate in libreria da Einaudi, raccontano cinquant’anni di storia italiana in una lingua impastata di italiano e siciliano, errori e invenzioni. “Un testo unico, un caso di scrittura singolare, un documento straordinario”, lo ha definito Vincenzo Consolo. “Una testimonianza” da leggere assolutamente, secondo Mario Rigoni Stern. Non è un caso che due dei più importanti scrittori del novecento usino parole come “documento” e “testimonianza” per descrivere Terra matta, e che il libro nel 2000 abbia vinto il premio Pieve per i diari, le lettere e le autobiografie.
Storia di mia vita è invece un’opera asciutta, il racconto di un autore che si è inventato una lingua e in una certa misura un mondo a partire da alcuni modelli precisi. Da bambino Gorczyca amava Alfred Szklarski, scrittore di libri per ragazzi: “Volevo vedere tutto quanto il mondo e le sue avventure mi hanno fatto conoscere geografia e paesi”. Lo spirito d’avventura è forte in Storia di mia vita, anche se Gorczyca toglie ogni romanticismo ed enfasi anche a questo aspetto, soprattutto riguardo al suo ruolo: “Qui lo dico chiaro, non sono un eroe, ma la vita per strada è piena di sorprese”, scrive. Crescendo, e lavorando in una centrale nucleare in Russia, legge Tolstoj e Dostoevskij in lingua originale: “Miei libri preferiti sono Guerra e pace e Anna Karenina”. Ma tra le sue letture ci sono anche Émile Zola, Wilbur Smith e Giorgio Faletti: avventure che lievitano sulla pagina e nella mente dei lettori.
Le centocinquanta pagine di Storia di mia vita sono invece tutte giocate sulla sottrazione: di aggettivi, di lungaggini e di enfasi. Un’antiretorica che gli ha permesso di evitare due trappole molto diffuse oggi, e cioè l’ossessione per i traumi e un racconto tanto concentrato su di sé quanto poco interessato agli altri, e a quello che si agita nel mondo.
Letteratura del trauma
Parul Sehgal, critica letteraria del New Yorker, ha individuato con precisione quali possono essere i rischi per gli scrittori fissati con i traumi: “La consacrazione della testimonianza in tutte le sue forme – nei memoir, nella poesia, nei racconti dei sopravvissuti, nei talk show – ha elevato il trauma a fonte di autorità morale, perfino a una sorta di competenza”. Tuttavia, in letteratura ricondurre tutto ai traumi subiti “appiattisce, distorce, riduce i personaggi a sintomi”. A un certo punto, come ha scritto l’autrice di best seller Larissa Pham,“la modalità dominante con cui una scrittrice giovane e affamata” poteva farsi notare “era decidere quale dei suoi traumi poteva monetizzare, che si trattasse di anoressia, depressione, razzismo”.
Naturalmente, come nota Sehgal, i traumi possono essere anche un ottimo motore narrativo, a patto di “uscire dal registro terapeutico per entrare in un registro generazionale, sociale e politico”. Sehgal cita Toni Morrison, Yaa Gyasi e Saidiya Hartman. Nel caso di Storia di mia vita si è più dalle parti di Annie Ernaux, che attraverso vicende minime e personali riesce a raccontare pezzi di storia francese; e dei libri working class di D. Hunter, spacciatore e ladro che ha trasformato la sua vicenda di sottoproletario britannico, costretto anche a prostituirsi, nell’autobiografia di un paese.
Gorczyca avrebbe avuto materiale sufficiente per costruire una grande macchina del trauma, ma è lui stesso a sabotarla, preferendole un racconto essenziale e ancorato ai fatti invece che ai sintomi. Così per esempio racconta la vita di strada: “Un giorno torniamo nella tenda e mi trovo un buco tagliato a forma di svastica, niente non agisco perché alla fine sono con una donna e un cane di piccola taglia, mantengo la calma, dopo capita che le donne ucraine che di giorno pranzano vicino rubano tutte le nostre cose, grazie alle mie conoscenze risalgo a loro ma di nuovo devo passarci sopra e non recupero niente. Siamo costretti a rimanere dentro la tenda, ovviamente c’è parecchia umidità così i vestiti fanno puzza”.
In poche righe traccia il ritratto di un paese in cui quasi centomila persone sono senzatetto o senza dimora. Le indagini dell’Istat e gli articoli dei giornali li raccontano come possono, Gorczyca gli dà voce. E mostra la violenza di un sistema che allo stesso tempo trasforma la povertà in reato ma ha bisogno di lavoratori poveri e precari per funzionare. “Io ho sempre lavorato, ma unica volta in regola in trent’anni è stato in carcere”, dice Gorczyca.
Anche in questo caso nelle sue parole non c’è enfasi. Così come non c’è quando nel libro racconta il momento in cui le tensioni per il lavoro, la convivenza con altre persone nella villa abbandonata del gerarca fascista Farinacci e il rapporto con Marta gli sfuggono di mano, e la sua vita implode: “A casa mi provoca Marta, e dopo la discussione con tutti quelli della Torre e altre discussioni sul posto di lavoro, prendo tutte le pasticche che erano prescritte per Marta e me le ingoio tutte, una dose micidiale. Finisco a Sandro Pertini addirittura nel reparto psichiatrico”.
Una notte di Capodanno, dopo aver bevuto con altri, si lascia trascinare da quelle che definisce le sue “furie pericolose” mentre è con Marta: “Litighiamo per strada a parole, arriviamo allo stabilimento nostro, ancora parole. Io ho la benzina per il gruppo elettrogeno, me la rovescio sulla testa, prendo un accendino e domando a Marta: devo accendere? Lei risponde sì se hai il coraggio e io accendo, divento una torcia vivente”.
In entrambi i casi al centro di questi episodi c’è Marta, la donna con cui Gorczyca ha passato 25 anni della sua vita. “La vedo ovunque, anche ora, qui, sempre con me”, dice mentre ci sediamo a un bar di piazza Sempione. Ordina un caffè corretto, si accende una sigaretta, parla, ma è come se la malinconia lo tirasse via.
Marta è morta per un tumore nel 2022. Il racconto che Gorczyca fa dei giorni in cui era ricoverata è forse l’unico in cui in tutto il libro usa la parola dolore: “Per me è un ricordo doloroso e mi sono posto una domanda, perché lei deve soffrire tanto, ma dopo mi sono reso conto che questo era destino suo e anche mio”.
In questo destino intrecciato entrambi hanno lavorato in nero per sopravvivere (Marta faceva le pulizie), hanno condiviso le occupazioni e le notti sui cartoni, e hanno litigato in maniera anche violenta. “A volte io scoppiavo, perché ero impulsivo. Capitava che facevo le botte contro tutti. Quando mi provocava qualcuno, io non riuscivo a fermarmi”. Gorczyca non giudica queste fiammate di violenza, le registra, così come registra il fatto di essersi andato a costituire per pagarne le conseguenze. “Non lo rifarei più mai”, dice.
“Non si può dimenticare una persona che ci sono stato nel bene e nel male quasi un quarto del secolo (…) Mi rendo conto che sono crollato ma faccio finta di niente, vivo giorno per giorno ma senza obiettivi chiari, tante volte preferisco libri, leggo tanto, solitudine, bicchiere di vino, o la birra”, scrive a proposito di un nuovo ricovero dopo la morte di Marta. Oggi l’alcol è sotto controllo ma i cocci delle bottiglie e delle vite rotte sono molti: “Io vivo ancora ma morti per alcol non voglio neanche contare”, si legge nel finale del libro.
In mezzo a questi ricordi Gorczyca ne conserva di luminosi, uno in particolare, sebbene nato in una circostanza terribile. “Mi chiamano da ospedale per andare a dare ultimo saluto a Marta. Io ho portato anche i vestiti per lei, tutto quanto, e all’improvviso l’ho baciata sulle labbra. Questo infermiere lì mi dice: ‘Oh non baciarla perché se si apre la bocca chi la chiude’. Ho sorriso, forse voleva scherzare”.
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