Insomma, chi lo ha organizzato il Concerto per l’Italia in piazza del Campo?
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19 Luglio 2022di Germana Marchese
Ripartire da una prospettiva di genere?
Ripensavo di recente al tempo dedicato allo studio, quello destinato alla tesi in particolare. Per ironia della sorte finii per appassionarmi alla storia del diritto, alla legislazione ed alla giustizia sociale. Lavoravo allora, mentre studiavo, contratti a tempo, facevo la dattilografa in un ministero. All’Università mi proposero un approfondimento inconsueto che certamente serviva più agli studi di facoltà che a me stessa ma che avrebbe potuto stimolare un diverso approccio nella lettura del contemporaneo: si trattava di ripartire dallo studio della Carta del Lavoro. Erano anni in cui studiare storia, quel periodo in particolare, inevitabilmente schierava, posizionava in termini civili e culturali, i corsi poi suggerivano sempre prospettive diverse, i docenti, molti, erano orientati, spesso di parte. Ma era ancora il tempo in cui reggeva la struttura partitica e ideologica. La storia purtroppo, impianti dottrinari a parte, stava perdendo peso accademico. Dagli anni ottanta in poi, le cattedre di storia cominciavano progressivamente a diminuire. Non avevo la più pallida idea che in breve, lo studio dell’umanità, organizzato in sequenza temporale, sarebbe stato soppiantato da un algoritmo per anticipare il futuro, bruciando le tappe. Scenari inquietanti a cui non pensavo proprio, che, avverandosi, hanno tragicamente ridotto sempre più lo studio a mera merce di antiquariato.
Tuttavia a quel tempo, mi interessava osservare, senza alcun pregiudizio, il processo novecentesco, attraverso il quale la stabilità lavorativa assurgeva a valore essenziale, anche rispetto alla legislazione sul lavoro in Europa. Ero incuriosita dai processi di stabilizzazione e dagli attori politici nelle diverse fasi storiche di crisi o di crescita. Intanto negli anni settanta il concetto di “precarizzazione” era emerso con prepotenza, specie nell’istruzione e nella ricerca ma io ero ancora una studentessa di liceo, spensierata e fiduciosa. In poco più di un ventennio, sarebbe divenuto un fenomeno reticolare, diffuso progressivamente in tutti i paesi globalizzati. La trasformazione mi avrebbe investita come una piena e per le vicissitudini del destino, avrei avuto il tempo di sperimentare l’equilibrismo di una nuova condizione esistenziale ovvero quella di continuare ad appartenere, per una buona parte della vita, a ciò che Guy Standing, nel 2011, già definiva chiaramente “the new dangerous class”, the precariat.
Solo allora, tra gli alti e i bassi, le assunzioni ed i tfr, la maternità, le occasioni temporanee di impiego in Italia e all’estero, avrei pienamente compreso il senso di una delle sue più crude affermazioni: “l’istruzione venduta come bene di investimento che non ha alcun ritorno economico per la maggior parte degli acquirenti è, semplicemente, una frode”.
Oggi le Università, per recuperare significato e credibilità, prima ancora di pensare ai numeri dei propri iscritti o a nuovi percorsi di studio, dovrebbero seriamente riflettere su questa evidenza. Anche per questa ragione, in occasione delle recenti elezioni, avevo sperato che sarebbe potuta essere finalmente una donna alla guida dell’ateneo senese, sarebbe stato un primo segnale di cambiamento. Ma Siena non è pronta, ancora una volta, non è riuscita a cambiare i propri assetti, sfuggendo alla logica degli equilibri di potere.
Oggi mi decido a scrivere con disincanto autobiografico, non tanto per me, perché ormai ho imparato a convivere con la flessibilità. Ho fatto pace con la mia mente precarizzata, anzi, ho sforzato a tal punto la speculazione sul tema, da riuscire a rovesciare l’insicurezza esistenziale di Standing, tramutandola in una condizione di nuova libertà, innalzandola, con costante esercizio, ad un livello di complessità superiore da raggiungere, ad arte di vita. Sotto l’aspetto biopolitico questo sforzo si traduce nella libertà di costruire almeno il mio presente, riappropriandomi continuamente e con una instancabile tenacia, del tempo di vita, mano a mano, a prescindere dai contratti di lavoro e dal denaro di cui ho bisogno, anche quando sia costretta dalle circostanze ad accettare che non provenga dal frutto del mio impiego. In questo orizzonte liquido galleggio come molti, ma capita che provi disagio a leggere narrazioni riflesse nelle descrizioni di chi non vive la mia condizione, anzi spesso provo persino rabbia. La stessa che mi allontana dalle menzogne della politica. Le zone d’ombra restano sempre in agguato ma nei momenti più cupi, conforta pensare che forse il rimedio a questo punto sia sul serio la povertà. Qualcuno osservava che povertà significa educazione elementare delle cose che ci sono utili e che oggi è un segno distintivo infinitamente più ricco della ricchezza. Io questo cerco di trasmetterlo in qualche maniera anche a scuola, per proteggere i più giovani, per rafforzare la loro identità intellettuale. Così, quando mi viene chiesto da colleghi occasionali oppure da amici, da quanto sono in questa condizione, io rispondo scherzando, citando Beckett, “Un secondo…” o “Un giorno…” o “Un secolo”. Tutto dipende da che cosa io intendo per “qui” e “io” e “sono”. Si, perché in effetti il precariato può configurarsi come una singolare condizione esistenziale che relativizza all’estremo le infinite variabili intorno all’essere. Ma questa diventerebbe filosofia, a chi interessa ormai?
Perciò oggi ne scrivo pensando ai figli e alle figlie di genitori, specie di donne, che come me, ne hanno cresciuti/e con sacrificio, mentre imparavano a ripensarsi, a reinventarsi, riempendo e ricomponendo il vuoto di frammentate e molteplici identità permanenti e transitorie. C’è un aspetto perverso di questa condizione che è del tutto nuovo rispetto al passato e fortemente contraddittorio. Ad un più alto livello di istruzione, corrisponde sempre più spesso un lavoro meno retribuito, meno stabile, meno adeguato. Questo lo tengo per me a scuola, non ce la faccio proprio a condividerlo con gli studenti. Mi ripugna il pensiero di spazzare via l’entusiasmo, di infrangere la promessa di futuro. Tuttavia constato che il mio silenziosa discrezione è contrastata dalla spinta opposta di molti genitori e purtroppo del sistema accademico, sempre più settato sul principio dell’empowerment della prestazione e del nomadismo. Vedo molti genitori concentrati ad investire prematuramente nel futuro e nella formazione dei propri figli, che collezionano crediti come figurine, in Italia e soprattutto all’estero. E’ un fenomeno pericoloso e discriminante. Riflette ciò che accade anche tra i ricercatori precari nelle accademie, la pressione di un continuo perfezionamento che non conosce più tempi morti, né pause. Questa tendenza a bruciare tappe, ma anche passaggi di vita, che a cascata investe tutto il mondo dell’istruzione, depaupera lo spessore della formazione a vantaggio di una competenza sempre più frammentata, rapida e modulata sulle esigenze di mercato. Ma questo sarebbe altro discorso interessante da approfondire.
Tornando ad una prospettiva di genere, credo che l’osservatorio femminile almeno in questo senso sia privilegiato, anticipa alcuni temi che oggi riguardano una più eterogenea umanità. Ormai queste identità borderline, di donne, giovani e meno giovani, migranti o disoccupati cronici, che non hanno più nulla a che vedere con il vecchio proletariato, sono al centro delle discussioni politiche di ogni paese, in attesa di improcrastinabili nuove soluzioni. Il modello in essere, entrando in crisi, ha drammaticamente scaricato sulle parti più deboli del sistema produttivo, le proprie contraddizioni condannando all’assenza di protezione sociale. E’ un fatto che si ripercuote sull’equilibrio sistemico, minando progressivamente le aspettative di futuro dell’intera umanità e procurando, oltre che rabbia, ansia e depressione diffusa, costi sociali sempre più ingenti. Il postulato è che se ripartiamo dalla instabilità della condizione femminile, con molta probabilità, riusciremo a ripensare la giustizia sociale in senso trasversale, transgenerazionale. Il problema è pensare a strategie d’uscita anche se per me la denuncia è già atto politico.
Il rapporto tra femminilizzazione e flessibilizzazione del lavoro è paradigmatico, inutile snocciolare dati, erano e restano drammatici ed alla portata di tutti. I titoli di giornale ne sono pieni quanto le agende elettorali, gli slogan dei politici e gli studi accademici. Paradossalmente però, nel nostro paese accade che ne discutano, ne scrivano e se ne preoccupino formalmente, soprattutto uomini, perché prevalgono nella gestione del potere e si configurano come già occupati, adulti o peggio ancora, ‘a riposo’ da un bel pezzo.
Del resto chi ha quotidiani affanni per sbarcare il lunario e districarsi tra le mille incombenze destinate alla cura di se e degli altri, perde progressivamente diritti e questo è il vero tema che mi riporta amaramente, con un balzo all’indietro, al principio della mia riflessione e della mia vecchia curiosità intellettuale.
Chi vive un’esistenza precaria perde diritto, il diritto allo studio, all’assistenza, alla protezione sociale e financo di riflesso, il diritto politico. Non sentendosi rappresentato/a, non riesce a riflettere la propria condizione nella realtà e non trovando alcuna identificazione nello spettro politico, smarrisce la matrice di un linguaggio comune. Può sentirsi costretto/a a svendere dignità, autodeterminazione oppure cedere, come ho già scritto altrove, al ricatto occupazionale.
In ognuna di queste contingenze, la sensazione è la medesima, che “l’indifferenza – purtroppo debba restare – il peso morto della storia”. Ma questa volta, almeno per i precari, non si tratta della mancanza di volontà di gramsciana memoria, del rifiuto di partecipare, perché un precario, anche volendo, non avrebbe tempo per piagnucolare pietosamente o per bestemmiare oscenamente, un precario semplicemente non può tessere alcuna tela, perché non ha mai ricevuto abbastanza spago per riuscire a legarsi come dovrebbe alla vita collettiva.