Alcuni anni fa, in occasione di una delle giornate internazionali contro la violenza maschile sulle donne, Michela Murgia propose una similitudine ardita: il patriarcato, scrisse, funziona un po’ come la mafia. Più precisamente, «nascere maschi in un sistema patriarcale e maschilista è un po’ come essere figli maschi di un boss mafioso. Non sai nemmeno cosa sia la mafia, ma da quel momento tutto quello che mangerai, berrai, vestirai verrà dall’attività mafiosa». Era, quella della scrittrice, una provocazione – nella cui arte Murgia era maestra – che fu capace di toccare un nervo scoperto, se si considera il numero di reazioni indignate che generò. Ma era soprattutto una chiamata degli uomini alla coscienza del privilegio, e alla responsabilità che viene dall’appartenere al genere dominante.
Oggi, mentre le cronache fanno luce sull’ultimo femminicidio commesso a Roma, dove Manuela Petrangeli è stata uccisa in strada con un fucile a canne mozze dal suo ex compagno, Gianluca Molinaro, quella similitudine sembra trovare una sintesi vivida, e tragica. “Il patriarcato ora usa la ‘lupara’” titolava ieri questo giornale.
Certo, la somiglianza con i delitti in stile mafioso si ferma qui. Ma la suggestione di Murgia ne esce rafforzata. Perché è vero, per restare a quell’immagine, che non tutti gli uomini sono “capomafia”, ma se alcuni imbracciano la “lupara”, e se una nuova vittima si aggiunge alla conta macabra delle uccisioni di donne, è perché quel sistema che chiamiamo patriarcato continua a plasmare in profondità l’esistenza sociale.
Un ordine scosso nelle fondamenta dalla forza della contestazione femminista, e screditato dalle pratiche quotidiane con cui le donne rivendicano la loro autonomia, resta tuttavia ancora in vita perché è sostenuto dalla legittimazione passiva (o attiva) che ancora gli accordano troppi uomini, e istituzioni sociali modellate al maschile.
Gianluca Molinaro ha 53 anni ed era già stato condannato per maltrattamenti dalla ex compagna, la quale ha dichiarato all’Ansa «Potevo esserci io al posto di quella donna». Una sopravvissuta, dunque, per un’altra, o altre, che perdono la vita. Come nel libro di Donatella di Pietrantonio, L’età fragile, che ha vinto il Premio Strega. E, come nel romanzo, la violenza attraversa le generazioni.
In queste settimane, le notizie provenienti dall’interrogatorio di Filippo Turetta raccontano l’inferno di controllo, possesso, ricatto emotivo, violenza a cui il ventiduenne ha sottoposto a lungo Giulia Cecchettin, prima di ammazzarla a coltellate.
Uomini di età diverse, in diversi contesti sociali, diventano uomini in un «sistema patriarcale e maschilista». Non credono, forse, di vivere nel privilegio. Ma, se quel privilegio viene messo in discussione, possono scoprirsi tutt’altro che disponibili a rinunciarvi.
Apprendere che la posizione di predominio garantita dall’essere uomo può essere messa in discussione nelle relazioni intime, in quelle più prossime, all’interno delle quali più forte si avverte la propria vulnerabilità, genera comportamenti violenti, fino alle forme più gravi e letali. In alcuni, non in tutti.
Ma questo – è il messaggio prezioso di Murgia – non esonera nessuno dalla responsabilità. Né gli altri uomini, che sono chiamati a una presa di coscienza individuale, uno per uno. Né i poteri pubblici.
Perché la trasformazione duratura delle disposizioni al dominio richiede altrettanto la trasformazione delle condizioni sociali che producono e riproducono queste disposizioni. E questo è un impegno che deve coinvolgere tutte le istituzioni.