Nel suo discorso a Ravenna Elly Schlein ha usato un’espressione efficace: la famosa «sintesi» tra posizioni diverse, che un segretario di partito ha il dovere di ricercare, non può essere «una media ponderata». Come a dire: l’approdo delle discussioni interne non può essere un astratto punto di «equilibrio», che alla fine rischia di rivelarsi solo una mera formula verbale, che ciascuno continuerà ad intendere a modo suo.

Si può cogliere qui il dilemma che sta segnando questi primi mesi della nuova segreteria e che certamente peserà sul suo futuro. Ed è un dilemma esistenziale, in senso proprio: si tratta di capire davvero cosa vuol essere questo partito.

E ciò che lascia stupefatti è la disinvoltura con cui non pochi sembrano rimuovere ogni seria riflessione sulle ragioni strutturali che hanno portato questo partito su una china autodistruttiva oramai imboccata da anni.

Elly Schlein, nel suo tentativo di ridefinire il profilo del partito, sta evitando polemiche retrospettive su ciò che il partito ha detto e fatto, fino ad un recente passato; certo, una critica aperta in questo senso renderebbe più credibile lo sforzo di innovazione odierno; ma si è visto come basti anche solo il tentativo di dire qualcosa di nuovo a provocare quasi una reazione di rigetto.

Ragionevolmente, non si può chiedere alla segretaria di aprire troppi fronti conflittuali: gli bastano quelli che già deve comunque reggere per cercare di tenere in piedi questo partito e ridargli una qualche prospettiva. Il problema è quello di capire come possa riuscire in questa impresa.

È evidente che, oggi, nei gruppi dirigenti diffusi del Pd convivono malamente visioni politiche e culturali molto diverse, al limite dell’incompatibilità. Tutti i discorsi sulla «ricchezza del pluralismo» lasciano il tempo che trovano, quando poi ci si deve misurare, ad esempio, sulle questioni spinose della pace e della guerra, del disarmo o della collocazione internazionale dell’Italia.

Il pluralismo è una ricchezza quando si muove all’interno di una cornice condivisa; ma, con tutta evidenza, questa cornice oggi non c’è, e forse non c’è mai stata.

Quel che non ha funzionato, e che oggi emerge con tutta evidenza, è l’idea stessa di un partito di centrosinistra, costretto a recitare tutte le parti in commedia, quella del centro moderato e quella della sinistra, con il risultato, alla lunga, di un partito che non parla né agli elettori moderati né a quelli di sinistra, silente o cacofonico a seconda dei casi.

Avrebbe molto senso un partito plurale della sinistra in cui convivano diverse tradizioni e culture (della sinistra: socialista, cattolica, ambientalista, liberal-socialista), non ha più senso l’idea originaria di un partito-coalizione che comprenda anche posizioni schiettamente moderate e centriste, che legittimamente nemmeno si pensano come sinistra.

Una nuova cornice non può essere perciò il risultato di una mediazione statica tutta interna agli attuali gruppi dirigenti. Sarebbe solo la paralisi: Schlein lo ha capito, ma ora occorre fare un deciso passo avanti, se si vuole salvare questo partito.

E allora, l’alternativa è una sola: individuare un percorso collettivo che costruisca davvero una visione comune e verifichi il grado della sua condivisione.

Un processo diffuso di partecipazione e discussione sui grandi temi del nostro tempo, coinvolgendo tutte le energie che potrebbero essere interessate. Ci sono 30 mila nuovi iscritti: potrebbero essere molti di più se si indicasse loro un obiettivo concreto, quello di essere parte attiva di una ricostruzione del profilo politico, programmatico e ideale del partito.

Un partito è degno di questo nome se, oltre ai programmi, costruisce una cultura politica condivisa, capace di diventare poi senso comune e patrimonio diffuso.

Ha ragione Carlo Galli quando, nella sua intervista al manifesto, ha fatto notare come manchi al Pd un «apparato teorico»: ma non è certo solo un problema di oggi, né di breve momento. L’identità di un partito non può essere definita da una collazione di campagne su singole questioni programmatiche: queste possono dare il senso della direzione verso cui muovere, ma non possono sostituire una lettura critica del presente e una visione del futuro che le tenga insieme.

Una conferenza programmatica nazionale potrebbe essere un primo passo in questa direzione: ma a condizione che sia fatta come si deve, sulla base di tesi e documenti politici da discutere, emendare e votare, e con l’elezione di delegati a tutti i livelli.

Il modo con cui un partito discute (dove, quanti, come?) determina anche il modo con cui decide: nel Pd, fino ad oggi, si è discusso poco e male, salvo poi scaricare sul segretario pro tempore l’onere della decisione e della sintesi. Non può reggere.

Tra le novità del discorso di Schlein a Ravenna va segnalato anche l’annuncio di una conferenza sull’organizzazione: ma, bisogna chiarire, «sulla» o «di», organizzazione? C’è una certa differenza: un conto è una qualche iniziativa in cui si discute del partito (ad es., un’assemblea nazionale dei segretari di circolo), altra cosa (ed è quello che più servirebbe) un vero processo di ripensamento del modello di democrazia interna, sulla base di un documento-base da discutere a tutti i livelli, magari anche con la prima bozza di un nuovo Statuto.

Insomma, le sorti del Pd sono legate ad entrambi i versanti, al come si discute e al cosa si decide. Alla segretaria spetta ora il compito di giocare fino in fondo questa partita.