di Simonetta Sciandivasci
Dopo appena un mese di governo, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni appare (è?) provata. Nervosa, sbrigativa, stanca. Molto stanca. Innervosita dalla stanchezza: spazientita. S’accommiata troppo presto, dice «devo andare», senza premettere che le dispiace, talvolta scusandosi e sempre specificando che c’è qualcosa o qualcun altro di più importante, di più urgente, di più cruciale e altisonante che richiede la sua presenza, la sua attenzione, la sua cura. Quando liquida i giornalisti, come ha fatto durante la conferenza stampa della presentazione della legge di bilancio, sottolinea da quanto tempo sta già parlando con loro, e chiude l’inevitabile diverbio che consegue dicendo che con lei sono tutti più intransigenti – e sottintende che lo sono perché lei è di destra, la destra destra, popolare e underdog, che da massa silenziosa s’è fatta massa di governo, e tuttavia ancora pone le rimostranze di una minoranza inascoltata, svalutata, volutamente e furbescamente fraintesa. Peccato. Peccato per la più ovvia e importante delle ragioni, e cioè che un capo di governo, con i giornalisti, in democrazia, ha il dovere di parlare, per noioso, lungo, irritante che sia o possa essere. E peccato pure per una più sottile ma assai rilevante ragione: il tradimento di un’aspettativa riposta nel fatto che lei è una donna, e da una donna premier ci si augurava un modo nuovo di gestire il potere. Un modo che mettesse in crisi quello precedente, e lo facesse nel rispetto delle istituzioni e delle professioni che gravitano intorno alle istituzioni(complesso, ma lei è lì per stravolgere i pronostici, e questa è la sua migliore promessa). Il motivo per cui è stato emozionante vederla suonare la campanella, giurare, stava anche in questo, soprattutto in questo: finalmente arrivava qualcuno che, per identità e storia personale, aveva tutte le carte in regola per sparigliare le regole. Per dire: così è troppo, così non ce la faccio, così non è umano, così è da cyborg, così è da maschi tossici e pure intossicati dal lavoro e dal potere e dal patriarcato e da tutto quello che ha reso impervio l’accesso in politica, non solo alle donne ma alle donne di più. Oltre che i pronostici, che sono in fondo una questione personale, Giorgia Meloni ha il mandato di rovesciare un modo di fare politica: e che lo faccia da femmina, da maschio, da neutro, non importa, ma importa che lo faccia. È bello e giusto quando le donne sbuffano e poi urlano e mandano tutti via e dicono che hanno altro da fare, mentre sparecchiano e lavano i piatti dopo la cena di Natale, e sono arrabbiate perché nessun altro lo farà, e in fondo sono arrabbiate per secoli di incombenze, di strattonamenti, di priorità degli altri, di distanziamento forzoso dalle cose che per loro contano. E sarebbe bello che di quelle urla Giorgia Meloni si facesse carico e portavoce, ma non a colloquio con i giornalisti durante una conferenza stampa. Non è così che si rivendica un’esasperazione dovuta a un sistema sfiancante e insopportabile, che è quello che ci aspettiamo che lei faccia. E invece no, invece ci ha mostrato soltanto un capo goffo, impaziente, iroso, inattrezzato al punto da non saper camuffare quanto disprezza il confronto.