
La sostenibilità possibile «Tre obiettivi strategici»
21 Luglio 2025
I Carmina Burana, rappresentati in Piazza del Campo, hanno offerto più di uno spettacolo: hanno aperto lo spazio di una riflessione. La forza antica di quei canti, che evocano la Fortuna e il capriccio dei destini, si è fatta occasione per interrogarsi sul senso del potere, sulla sua instabilità, sulla necessità di governarlo.
Il potere non appartiene mai davvero a chi lo esercita. Santa Caterina da Siena lo ricordava con forza ai suoi interlocutori: papi, principi, signori. Il potere è un prestito di Dio, affidato per amministrare la giustizia, custodire il bene comune, guidare i popoli. Non è una proprietà, né un diritto acquisito. È un incarico temporaneo che Dio può revocare, come ha concesso. Il potente che dimentica questa origine sacrale, che usa il comando per se stesso anziché per gli altri, tradisce il mandato ricevuto e si prepara alla caduta.
Nella tradizione profana, questa stessa precarietà si incarna nel simbolo della Ruota della Fortuna, che gira incessante e indifferente, innalzando e rovesciando i potenti come pedine di un gioco capriccioso. Oggi si è in cima, domani precipitati a terra: il potere, come la fortuna, è instabile per natura. Nulla garantisce che la posizione conquistata duri, perché la sorte, cieca e volubile, decide di mutare i destini senza avviso.
Ma se per la Fortuna la caduta è casuale e inesorabile, per Santa Caterina la rovina di chi comanda nasce da un errore morale: l’orgoglio, l’avidità, l’ingiustizia. È la stessa lezione che ritroviamo negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena: il Cattivo Governo mostra come il potere corrotto generi disordine, paura, distruzione. Non è un destino ineluttabile, ma la conseguenza di vizi che si trasformano in rovina collettiva. La città si degrada, la campagna si spopola, la convivenza civile si dissolve.
Caterina, figlia di Siena, ha fatto tesoro di quella lezione civica e visiva che Lorenzetti aveva dipinto sulle mura del governo cittadino. Nelle sue lettere, come negli affreschi, il potere che si allontana dal bene comune e si piega ai propri interessi precipita non solo il potente, ma tutta la comunità nell’ingiustizia, nella guerra, nella fame. Caterina traduce in parola ciò che Lorenzetti raffigura nei suoi cicli pittorici: la responsabilità pubblica del governante, il legame inscindibile tra la virtù del comando e la salute della città.
Così il pensiero cristiano e quello pagano si incontrano: entrambi ammoniscono che nessun potere è saldo, che nessun trono è eterno. Ogni ascesa porta già in sé il seme della caduta, se si dimentica chi ce lo ha concesso o si sfida la Fortuna credendosi invincibili.
Ma è possibile, oggi, parlare ancora questo linguaggio? Quello crudo e disincantato dei Carmina Burana, che deridono la pretesa di stabilità e denunciano la volubilità del destino, o quello severo e appassionato di Caterina, che richiama ogni potente alla responsabilità di fronte a Dio e agli uomini?
Sì, non solo è possibile, è necessario. In un tempo in cui i poteri si moltiplicano e si nascondono, in cui le democrazie vacillano sotto il peso delle disuguaglianze, delle tecnologie opache e dei nuovi tiranni, risuonare di questi richiami è un atto di chiarezza. Parlare come i Carmina significa denunciare il cinismo e lo scarto crescente tra potere e giustizia; parlare come Caterina e Lorenzetti significa ricordare che ogni autorità è risposta a un dovere, non un possesso.
La democrazia stessa nasce da questa consapevolezza: che il potere deve essere distribuito, controllato, messo in discussione. È il tentativo di spezzare la cieca Ruota della Fortuna con istituzioni, diritti, contrappesi. Ma questi correttivi funzionano solo se la società rimane vigile, come ammoniva Antonio Gramsci: senza una cittadinanza critica e consapevole, anche le migliori architetture democratiche si svuotano, diventano forme senza sostanza, facili prede di nuovi autoritarismi o di un potere economico che sfugge al controllo pubblico.
Su un altro piano, però, Machiavelli ha indicato un’altra via: se la Fortuna è capricciosa e instabile, il Principe deve dominarla con la virtù, ovvero la forza, l’astuzia, la capacità di leggere il tempo e agire con decisione. Il potere, per Machiavelli, non è un prestito divino né un esito casuale: è il frutto della tecnica, dell’intelligenza, della strategia.
Le virtù del buon governo affrescate da Ambrogio Lorenzetti — la Sapienza, la Giustizia, la Concordia, la Pace — costituiscono in nuce una prefigurazione del pensiero di Machiavelli, pur con una differente matrice culturale.
Lorenzetti esprime un ideale di governo fondato sulla virtù civica, su qualità concrete che il governante deve incarnare per garantire ordine e prosperità. Non si tratta di virtù morali astratte, ma di strumenti politici: la Sapienza come capacità di giudizio, la Giustizia come equilibrio tra i poteri, la Concordia come gestione degli interessi divergenti. Sono i pilastri di un potere che si legittima attraverso l’efficacia nel mantenere la coesione sociale e la sicurezza.
Quando Machiavelli parla di virtù, intende proprio questo: non la bontà, ma la capacità di governo, la padronanza delle circostanze, l’arte di stabilire e mantenere il potere in un mondo instabile.
Quindi sì, nei Buoni e Cattivi Governi di Lorenzetti c’è già una pedagogia del potere che anticipa Machiavelli: un potere che si fonda sulla qualità delle scelte, sulla conoscenza dei meccanismi della città, sul dominio degli eventi attraverso la ragione politica.
Ed è proprio questa combinazione di virtù e fortuna che costituisce l’essenza più profonda del Palio di Siena. Al di là della corsa e del rituale, il Palio è — o dovrebbe essere ancora — una scuola politica e antropologica: un manuale di Machiavelli in forma di festa. Il potere, che lì si incarna nella vittoria, si conquista con intelligenza, alleanze, calcolo, astuzia, ma sempre sotto lo sguardo incerto della sorte. Nulla è mai del tutto certo, nulla completamente affidato al caso. È il luogo dove la politica diventa gioco tragico, capace di mostrare la verità dei rapporti di forza e del destino umano.
Eppure, di questa essenza si è persa in parte la traccia. La spettacolarizzazione, il turismo di massa, la retorica della tradizione hanno offuscato la lettura più autentica del Palio: non semplice evento di costume, ma rappresentazione drammatica e collettiva del potere, dei suoi rischi e delle sue regole non scritte.
Potremmo dire che oggi, di fronte alle crisi delle democrazie, abbiamo bisogno di entrambe le lezioni: la vigilanza di Gramsci, Caterina e Lorenzetti, che limita e rende giusto il potere; ma anche la lucidità di Machiavelli, che ci ricorda che la politica è conflitto, tecnica, gestione sapiente della forza — e forse anche il Palio, inteso non come festa immobile, ma come memoria viva di cosa sia il potere quando si fa popolo, destino, competizione e astuzia.
Per questo la lezione dei Carmina, di Caterina, di Lorenzetti, di Gramsci, di Machiavelli e del Palio resta attuale: ci ricorda che il potere, anche quello che si pretende democratico, rimane un prestito e un rischio, e che solo un sapere critico e una politica all’altezza dei tempi possono impedirgli di diventare dominio cieco o semplice gioco della sorte.