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10 Agosto 2025
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10 Agosto 2025Roberto Andò dedica a Ferdinando Scianna un’elegia dell’amicizia: «È come se questo documentario si fosse girato da solo». Incombe la figura di Sciascia: «Una candela accesa»
di vincenzo trione
Come un’elegia dell’amicizia. Che è nata da un episodio risalente a tanti anni fa, riportato ne Il piacere di essere un altro, il libro-intervista scritto con Salvatore Ferlita (La nave di Teseo). Alla domanda di Ferdinando Scianna sui suoi progetti futuri, Roberto Andò confessa che avrebbe voluto dirigere un film. «Sai bene che se uno vuole fare un film non deve fare altro che farlo, è inutile crearsi l’alibi che prima ci vuole il produttore», replica Scianna. Da questa sollecitazione è nato il primo lungometraggio, Diario senza date (1995).
In segno di gratitudine, Andò ora ha girato Ferdinando Scianna. Il fotografo dell’ombra, che verrà presentato fuori concorso alla prossima Mostra del Cinema di Venezia. Insieme con il film per la tv su Letizia Battaglia (Solo per passione, 2022), questo documentario va a comporre un ideale dittico, che sembra concretizzare un lontano invito di Vincenzo Consolo rivolto ad Andò: scrivere un libro sul rapporto tra i fotografi siciliani e la realtà. Siamo dinanzi a un atto d’affetto. «È un dialogo tra amici, che hanno troppe cose in comune, troppi fili da sciogliere insieme», spiega a «la Lettura» Andò, già autore di omaggi a figure che hanno esercitato una profonda influenza su di lui (Francesco Rosi, l’appena scomparso Bob Wilson, Harold Pinter e, appunto, Letizia Battaglia).
È un tributo che ha un andamento drammaturgico mosso, caratterizzato da gusto per l’affabulazione e per le divagazioni, tra momenti riflessivi e viaggi: «È come se questo film si fosse fatto da solo», aggiunge Andò. Il quale sembra possedere, per dirla con Raffaele La Capria, una sorta di «stile dell’anatra»: dotato di un istintivo senso della misura, ha il dono di rendere naturale ogni artificio e soluzione filmica.
Dunque, siamo sulle tracce del fotografo dell’ombra. «Mi piacerebbe somigliare al personaggio che ha costruito Roberto», dice. Il prologo: la voce fuori campo di Andò. Che è sempre in scena. A volte si fa osservatore silente, attento a pedinare il suo «eroe», denso di consonanze con il protagonista di Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore.
Nato a Bagheria, nel 1966 Scianna si trasferisce a Milano, senza mai abbandonare, però, la sua terra, che resta una patria inseguita, ricercata, interrogata: pur nella distanza. «Solo se si ha un villaggio nella memoria si può fare un’esperienza cosmopolita», ama ripetere, memore delle parole di Ernesto De Martino.
Un interno milanese. La maggior parte del film è ambientata qui. Scianna mostra macchine fotografiche e obiettivi. Conduce nel suo archivio. Svela i segreti celati dietro i suoi scatti. Fa entrare nella sua cucina. Ripercorre la sua lunga avventura. I primi esercizi, d’impronta antropologica (Feste religiose in Sicilia ha orientato lo sguardo di Andò e di Tornatore). La consacrazione internazionale con l’agenzia Magnum. E le incursioni nel mondo della moda. Ma, soprattutto, l’incontro fatale con Sciascia: grazie a lui Andò e Scianna si sono conosciuti. E ancora: la decisiva frequentazione con Henri Cartier-Bresson. E tanti sfioramenti, parti di una ricca costellazione affettiva: Jorge Luis Borges e Milan Kundera, Manuel Vázquez Montalbán e Roland Barthes, Dominique Fernandez e Gesualdo Bufalino. E molti compagni di strada. Come quelli che, seduti intorno a un tavolo, consegnano le loro testimonianze: tra gli altri, Tornatore, Gianni Berengo Gardin (appena scomparso), Mimmo Paladino, Dacia Maraini e Marco Belpoliti.
«Noi siamo quelle persone», commenta Scianna. Che, nell’ultima parte del film, proprio come l’indimenticabile personaggio di Tornatore, intraprende un viaggio a ritroso verso la Sicilia, ferito a morte dalla nostalgia, un sentimento che evoca «la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare» (come ha scritto Kundera). Bagheria, di nuovo. Un piccolo mondo abitato da facce scolpite dall’esistenza. Infine, Palermo. La casa disabitata di Leonardo Sciascia.
Un autentico romanzo di formazione, dal quale affiora la filosofia dell’arte elaborata da Andò. Che, nelle sue continue scorribande, tende a comportarsi come un uomo del Rinascimento, sorretto da una curiosità onnivora, abile nel transitare con leggerezza da una pratica a un’altra (dal teatro all’opera lirica, dal cinema alla letteratura), sempre animato dal piacere supremo del raccontare servendosi di media diversi, dal bisogno di diventare altro da sé, dalla capacità di «inventare la verità». Sulle orme del lavoro solitario e anarchico di Scianna, di Enzo Sellerio e di Letizia Battaglia, Andò vuole combinare mente, occhio e cuore; coniugare studio delle evidenze e culto del misterioso; avviare una danza con il reale, senza mai violare la «grammatica dell’inquadratura», le regole della composizione. «È stato anche un modo per fare i conti con il mio mestiere, questo film», dice Andò.
Dietro le sue intenzioni di poetica si cela (anche) la lezione di Scianna. Il quale, lontano da ogni narcisistica tentazione «da artista», pensa la fotografia come un modo per aderire al presente, distillandone attimi; per «naufragare nel mare della vita»; per «guardarsi intorno»; per «capire meglio sé stessi»; ma anche per suggerire impliciti racconti. «È un gesto facile. Il fotografo è un lettore: riceve situazioni, deve limitarsi a scattare un bottone». È, questa, la più grande differenza con scrittori e cineasti, che hanno il potere di «ricostruire la memoria».
E, tuttavia, non basta registrare il visibile. Occorre impaginare le immagini. Esplorarne i lati più perturbanti, in modo da disegnare i contorni di una «geometria della compassione, del lutto». La sfida più ardita, per Scianna: imparare ad amare il sole. Perché fa ombra.
Queste oscillazioni tra una dimensione immanente e una metafisica erano state colte da Sciascia, secondo il quale la fotografia è una specie di borgesiano Aleph, straordinario nel determinare una «magica contrazione dello spazio» e, insieme, una scandalosa «abolizione del tempo». Che viene rimodulato in una guerra «umile e quotidiana», fino a giungere sul «punto della dissolvenza e dell’oblio».
Sciascia. È lui il vero protagonista di questo film, come suggerisce lo struggente epilogo de Il fotografo dell’ombra. A circa 35 anni dalla sua morte, i nostri Dante e Virgilio tornano nella casa palermitana. Tutto è rimasto intatto. Come un palcoscenico attraversato da un’assenza necessaria, che alimenta senso dello smarrimento. «La presenza di Sciascia è una candela accesa per rischiarare il buio profondo e nero del nostro tempo», dice Andò, che da tempo accarezza l’idea di un film su questo grande scrittore, figlio di una Sicilia arcaica e pagana, cultore della Ragione ma con una sensibilità unica per l’inspiegabile e per la follia. «Ma è difficile trovare un attore che gli somigli», aggiunge.
Mentore, critico, amico, padre, fratello maggiore, per Scianna. Che, da decenni, coltiva il progetto di un libro in cui ordinare i centinaia di ritratti dedicati a Sciascia («Da ragazzo mi ha aiutato a cogliere il significato di alcune mie scelte espressive e formali»). Invano. «La sua morte è come un amore finito, da cui non guarirò mai», confessa Scianna. Poi, smarrito tra libri, indizi e reliquie, sussurra: «Mi piace stare qui, ma non mi piace. È troppo violento per me. Andiamo via».