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22 Settembre 2025Il rito di Glendale e l’Apocalisse politica: il trumpismo oltre il funerale
Ogni movimento politico attraversa momenti in cui la sua identità si rifonda. Non bastano le elezioni, le vittorie parlamentari, i programmi: serve un trauma, un evento che diventi mito. La morte di Charlie Kirk è stata uno di questi momenti. Non un funerale, ma un rito di passaggio. Non la chiusura di una vita, ma l’apertura di una nuova fase.
L’immagine delle 200mila persone radunate nello stadio di Glendale, dove un tempo risuonava la voce di Taylor Swift, racconta questa mutazione: lo spazio del pop trasformato in cattedrale politica, la folla che intona cori rituali, i megaschermi che trasformano il volto del defunto in icona. Qui il trumpismo ha superato la fase della nostalgia, del “torniamo grandi”, per entrare in una fase apocalittica.
È il momento in cui l’eccezione diventa norma. La politica non si limita più a gestire conflitti, ma separa il mondo in amici e nemici. E in Arizona i nemici sono stati nominati con chiarezza quasi liturgica: le élite globali, i media, la sinistra, l’ideologia progressista. Non più avversari da sconfiggere, ma forze del male da estirpare.
La dinamica è antica: la morte diventa sacrificio fondatore, il lutto collettivo un dispositivo di rigenerazione. Ogni regime del Novecento ha avuto il suo momento sacrificale: le marce in onore dei caduti di Monaco nella Germania hitleriana, i “martiri delle camicie nere” nel fascismo, i processi pubblici che inscenavano la purificazione del corpo sociale nello stalinismo. Il dolore privato si trasforma in pedagogia politica, la sofferenza in segno di elezione.
Ma il trumpismo introduce una variante: questo rito non avviene in una dittatura, ma dentro una democrazia che funziona, usando i suoi stessi strumenti. Non c’è censura totale, non c’è partito unico: ci sono social media, marketing, viralità. La comunità Maga non subisce la liturgia, la co-produce, la moltiplica, la trasforma in meme e simbolo. È un’apocalisse partecipata, che vive di immagini e di shock, senza bisogno di coerenza ideologica.
Per cogliere la differenza basta pensare a un grande funerale laico: quello di John F. Kennedy, ad esempio. Anche lì c’era una nazione in lutto, folle immense, telecamere. Ma quel rito serviva a suturare la ferita, a ricostruire un senso di unità nazionale, non a rilanciare una guerra politica totale. Glendale fa l’opposto: non pacifica, ma radicalizza; non chiude il trauma, lo riapre e lo rende fertile.
La vedova di Kirk, con parole che hanno suonato come una predica, non ha chiesto vendetta, ha chiesto attesa. «Lascio che il governo decida» non è neutralità: è una sospensione escatologica, un rinvio del giudizio che trasforma la politica in vigilia permanente.
La lezione della storia è amara: quando la politica si riveste di teologia, quando il nemico diventa figura del male e il lutto si fa sacramento, il passo successivo è sempre un’azione purificatrice. Che si chiami rivoluzione, guerra o epurazione, il rito prepara il terreno.
Il trumpismo è ancora dentro la democrazia, ma la sua grammatica è già quella di una religione politica. Il funerale di Glendale è stato la sua Pentecoste: ogni perdita un segno, ogni ferita una reliquia, ogni evento traumatico un nuovo capitolo del libro della fine.
La domanda che resta aperta è se questo libro voglia davvero raccontare la salvezza dell’America – o la sua caduta.