Un sabato mattina di inizio estate, nella cappella della chiesa romana di Cristo Re, accanto al palazzo della Rai di viale Mazzini, una piccola folla festosa si raduna per partecipare a un matrimonio particolare, tra due ragazzi di lingua italiana e francese e di diverse confessioni cristiane, cattolica e protestante. La mamma della sposa ricorda nella sua preghiera la mescolanza dei popoli dell’Europa, «in casa c’è sempre una valigia pronta, si parte per studiare, lavorare, incontrarsi, mai per fare una guerra», si chiama Laura Rozza Giuntella, è stata presidente nazionale degli universitari cattolici della Fuci alla fine degli anni Settanta, poi deputata della Rete nella legislatura cruciale 1992-1994, moglie di Paolo Giuntella, giornalista Rai, scomparso nel 2008 a soli 62 anni dopo aver influenzato una generazione di giovani cattolici. La parrocchia del quartiere Prati è stata frequentata da Vittorio Bachelet, Pietro Scoppola, Leopoldo Elia, la famiglia Giuntella, è uno dei cuori pulsanti di quella corrente politica e culturale che per anni è stata chiamata cattolicesimo democratico. Come la Bologna del costituente e monaco Giuseppe Dossetti, e di Achille Ardigò, Luigi Pedrazzi, con il modenese Ermanno Gorrieri, la città da cui è partito l’Ulivo di Romano Prodi, di Arturo Parisi e di Beniamino Andreatta. Un altro centro di questa famiglia di minoranza nella politica e nella Chiesa, decisiva nella storia repubblicana.

TRA ROMA E BOLOGNA

Roma e Bologna. C’è oggi una figura che unisce le due città e i mondi, è il prete Matteo Zuppi, 67 anni l’11 ottobre, romano, uno dei primi a operare nella comunità di Sant’Egidio, parroco di Trastevere, da sette anni arcivescovo della città emiliana, cardinale dal 2019, da poco più di un mese nominato da papa Francesco presidente della Cei, la Conferenza episcopale italiana. In un momento drammatico per l’Europa e per l’Italia, in mezzo alla crisi più grave dei prezzi e dei consumi che colpisce direttamente le famiglie e il ceto medio, con una guerra che per ora ha vanificato ogni tentativo di cessate il fuoco e ogni sforzo ecumenico.

Il cardinale Zuppi, il mite e sorridente don Matteo, è una delle figure da seguire nel nostro paese in questa fase tragica, in cui, ha scritto l’emiliano Pierluigi Castagnetti su Twitter, «la situazione si sta aggravando sia sul piano internazionale che nazionale. E l’attenzione e il dibattito non sono proporzionati alla gravità».

Zuppi è romano di nascita e bolognese di adozione, compagno di scuola nel liceo Virgilio di David Sassoli, il presidente del parlamento europeo scomparso all’inizio dell’anno, anche lui assiduo frequentatore della parrocchia romana di Cristo Re, di cui don Matteo ha celebrato i funerali di fronte ai vertici delle istituzioni europee e italiane con una omelia che non si può dimenticare: «David ha respirato la fede e l’impegno cattolico democratico e civile a casa, con i tanti amici del papà e poi suoi, credenti impetuosi e appassionati come Giorgio La Pira o don Primo Mazzolari, come Davide Maria Turoldo, del quale porta il nome. Credente sereno ma senza evitare i dubbi e gli interrogativi difficili, fiducioso nell’amore di Dio, radice del suo impegno, condiviso sempre con qualcuno: gli scout, il gruppo della Rosa Bianca con Paolo Giuntella (Sophie e Hans Scholl, i leader della Weiss Rose erano per lui le stelle del mattino dell’Europa, uccisi dai nazisti per la loro libertà, quando fu eletto presidente pose un’enorme rosa bianca su sfondo europeo nel Parlamento perché  “la nostra storia è scritta nel loro desiderio di libertà”), la Chiesa di Roma del febbraio 1974 e di don Luigi Di Liegro, sempre unendo fede personale e impegno nella storia».

Nomi e sigle che forse dicono poco ai più giovani. Eppure la morte di Sassoli ha rappresentato un momento sorprendente di recupero pubblico di quel cattolicesimo democratico che sembrava scomparso dal dibattito pubblico. Il riconoscimento di un filone resistente di pensiero.

«Il cattolicesimo democratico, in concreto il cattolicesimo politico di sinistra, in Italia ha sempre meno rilevanza», sentenziò nel 2019 sul Corriere della Sera il cardinale Camillo Ruini, per venti anni la figura egemone della chiesa italiana, con una punta di acidità non degna della sua intelligenza.

Un doppio errore. Un errore identificare i cattolici democratici soltanto con la storia della sinistra. E uno sbaglio dichiararne l’irrilevanza. Se non altro perché in quella tradizione si ritrovano il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il segretario del Pd Enrico Letta. E ora il nuovo presidente della Cei Matteo Zuppi. Un ritrovarsi, certo, un riconoscersi, perché il cattolicesimo democratico non è mai stato un’appartenenza, non è mai diventato un apparato.

È un insieme di biografie, incontri, letture, amicizie che diventano impegno civile e ecclesiale. Una cultura che nella Prima Repubblica ha incrociato la Democrazia cristiana, ma che non si è mai identificata con il partito. Una certa idea della politica (e della chiesa) insieme istituzionale e movimentista, riformista e radicale. Alternativa ai populismi, ma anche a un’idea stanca e chiusa della democrazia.

LA SFIDA AI DIRITTI

Oggi, con la presidenza della Cei affidata a Zuppi, questa cultura torna a essere di fronte a una sfida decisiva per l’Europa e per l’Italia, quella che arriva dall’altra sponda dell’Atlantico dopo la sentenza della Corte suprema sull’aborto che ha cancellato il pronunciamento del 1973 Roe vs. Wade.

«Gli Stati Uniti sono il prototipo delle democrazie in crisi dove prevalgono posizioni estreme. Sistemi in cui o non si riesce a far nulla o si fanno le cose estreme», ha detto il presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato (Il Manifesto, 28 giugno), portando ad esempio per l’Europa il caso della Polonia.

Un paese in cui la gerarchia ecclesiastica si è pesantemente schierata a favore della legge sul divieto di aborto e del partito nazionalista di governo, il Pis, cui ha fornito una base ideologica di riferimento. Nazionalismo, clericalismo e guerra ideologica sul corpo delle donne: un intreccio diabolico.

In Italia la reazione ufficiale alla sentenza della Corte suprema americana dei vescovi guidati da Zuppi è stata molto prudente. «Ma la vita è dialogo», ha titolato il quotidiano della Cei Avvenire il 26 giugno. «C’è una sorta di sapienza umanistica dietro la legge 194», ha ammesso sul quotidiano cattolico il teologo Giuseppe Lorizio (Avvenire, primo luglio) difendendo di fatto la legge italiana che consente l’interruzione di gravidanza. «I credenti non demorderanno mai dall’affermare che l’uomo non è il Signore della vita e della morte. Tuttavia, il diritto che si è affermato, attraverso questa o analoghe legislazioni, non è stato il diritto all’aborto, ma il diritto alla tutela della salute, perché, se di vita si tratta, non è in gioco solo quella del nascituro, ma anche quella della donna, che non può essere costretta a ricorrere a pratiche clandestine, che ne mettano a rischio la sopravvivenza».

Lo stesso giorno, in prima pagina, Avvenire si è interrogato sulle conseguenze politiche della sentenza firmata dai giudici di nomina trumpiana. «Rimandare ai singoli stati la legislazione completa sull’aborto può essere letto come il riconoscimento di una maggiore tutela della vita nascente», si legge nell’editoriale del primo luglio.

«Ma qui si vuole qui sottolineare le conseguenze a cascata del verdetto. Le convulsioni della democrazia americana sono allarmanti. È difficile frenare una deriva populista e illiberale, alimentata anche dalla prevalenza degli aspetti emotivi e poco riflessivi (non ultimo il rifiuto della scienza) tipici dell’era dei social media. Serve vigilare con attenzione su questo caso serio d’America, anche perché il contagio non si estenda ad altre democrazie».

Dalla sentenza della Corte suprema Usa non arriva una vittoria della vita, ma un rischio di contagio per le democrazie, scrive la voce ufficiale della Cei. Toni problematici, di tutt’altro tono rispetto a quelli usati dai crociati pro life Usa e dai popoli della famiglia (ma senza voti) di casa nostra.

Una cautela che tradisce la preoccupazione della chiesa italiana guidata da Zuppi. Il pericolo di trasferire sulle questioni etiche e dei diritti civili il rebus irrisolvibile della politica dei paesi democratici in questi anni: come mantenere il giusto equilibrio tra le esigenze e le aspirazioni dei singoli, le singole categorie, i singoli individui, il sovranismo di fare come vogliamo a casa nostra, sempre più forti, e il bene comune, l’interesse generale, il dovere di solidarietà, vistosamente indeboliti?

Ognuno brandisce il suo particolare come una clava contro gli altri. In questo contesto i diritti civili, l’orientamento sessuale, l’identità di genere, l’inizio della vita, la malattia, la frontiera con la morte, il corpo, rischiano di diventare il centro di uno scontro ideologico, il perimetro in cui sembra esaurirsi l’intero senso della rappresentanza politica. Destra e sinistra, senza più identità, si rifugiano sul terreno più delicato per segnalare la loro esistenza.

LA DERIVA AMERICANA E POLACCA

Se la democrazia diventa la mera somma di interessi e di desideri contrapposti, in cui ognuno fa legge da sé oppure prova a imporre la sua visione etica e religiosa a tutti gli altri, le società democratiche perdono di senso, diventano un terreno di scorribande. È quanto sta avvenendo negli Usa. Rispetto alla deriva americana o polacca la chiesa italiana di Zuppi può essere un argine. Ma si muove su un crinale estremamente rischioso.

Lo aveva segnalato già nel 1997 l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini, nel suo discorso per la festa di Sant’Ambrogio: «Cadute le grandi ideologie, i diversi filoni conservatori e progressisti si stanno implicitamente accordando sull’esaltazione delle ragioni dell’individuo e sulla difesa degli interessi di gruppo. Le differenze tra le grandi visioni della vita, e le conseguenti tendenze della politica, consistono oggi, tutt’al più, nel considerare l’individuo o quale soggetto del libero e non sindacabile esercizio del potere economico oppure nel considerarlo – sia pure nel quadro di una generica solidarietà sociale – quale soggetto di libero e non sindacabile espletamento di comportamenti etici».

Martini, per venti anni punto di riferimento del cattolicesimo progressista in Italia e in Europa, in minoranza nella chiesa egemonizzata da Ruini, aveva partecipato all’inizio degli anni Ottanta ad alcuni incontri riservati organizzati dalla comunità di Sant’Egidio, di cui Zuppi ha fatto parte, all’indomani del referendum del 1981 per abrogare la legge 194 indetto dai cattolici del Movimento per la vita e concluso con una storica sconfitta: il 68 per cento degli italiani votò per mantenere la legge sull’aborto così com’era (nella stessa votazione un plebiscitario 88 per cento bocciò il quesito del Partito radicale che andava nella direzione opposta, l’estensione della possibilità di abortire oltre i limiti della legge 194).

In quegli incontri, rivelati oggi nel libro di Roberto Zuccolini (La parola e i poveri: storia di un’amicizia cristiana, edizioni San Paolo), si confrontarono due idee di politica e di società. Quella di Comunione e liberazione, sostenuta dal fondatore don Luigi Giussani e da Rocco Buttiglione, che sosteneva l’esigenza di riprendere «l’identità cristiana», anche in una condizione di minoranza, e quella del cattolico democratico Scoppola: «Il compito della chiesa è evangelizzare, non civilizzare». Come dire che lo spazio della società civile spettava al libero dibattito delle idee e non alla riproposizione della propria identità da privilegiare rispetto alle altre.

LA FINE DEI MODERATI

Era una divisione tipica di quella stagione, fine anni Settanta-inizio anni Ottanta, in cui il cattolicesimo italiano passava in modo improvviso e accelerato dai «giorni dell’onnipotenza», in cui la chiesa era tutto, invadeva ogni aspetto della vita, allo stato di minoranza in una società secolarizzata.

Durante la Prima Repubblica le culture politiche più robuste e i partiti più radicati erano riusciti a tenere a bada i settori integralisti e estremi nei rispettivi campi. La Dc non si riduceva al Movimento per la vita e a Comunione e liberazione, il Pci aveva con il movimento delle donne una dialettica intensa e anche conflittuale.

In mezzo, c’era uno spazio di mediazione, di ascolto, la spinta a non radicalizzare i conflitti, la bilancia di tutti i valori in gioco, primo fra tutti la Costituzione repubblicana, laica e personalista. Quello spazio era la politica.

Quando lo spazio si è consumato, e la politica è stata travolta dall’autorappresentazione degli interessi affidata alla legge del più forte, entrambe le posizioni del mondo cattolico sono state sconfitte. L’integralismo modello Cl si è rifugiato nelle posizioni di potere politico, economico e mediatico conquistate nel frattempo, perdendo la spinta a contraddire un certo conformismo culturale.

Il cattolicesimo democratico si è estenuato nella mediazione a ogni costo e non ha più trovato nella cultura laica un interlocutore con cui dialogare. La secolarizzazione è avanzata, la chiesa brucia, come ha scritto Andrea Riccardi, il dialogo tra le culture è minato alle radici.

In questo passaggio traumatico, il cardinale Ruini tra gli anni Novanta e i Duemila ha trasformato anche la chiesa in una lobby come le altre, un sindacato vociante, una confindustria dell’otto per mille a difesa arcigna del suo ruolo e della sua leadership.

Per farlo doveva spegnere le voci autonome al suo interno e intensificare le contrattazioni con la politica, senza più mediazioni. E ha piazzato nei partiti e in parlamento cattolici senza aggettivi, ma soprattutto senza voti e senza cultura politica, incaricati di rappresentare gli interessi di categoria, di trattare i valori non negoziabili come fanno (giustamente) i commercianti del centro con gli orari della Ztl. Portavoci di forum riuniti con se stessi, teo-con nel centrodestra, teo-dem nel centrosinistra, si sono alla fine dissolti per assenza di autorevolezza, o semplicemente di sponsorizzazione di un prelato.

IL CASO TOMMASI

Il risultato è che il mondo cattolico italiano ha partecipato al big bang politico italiano dei primi Venti del Duemila, anziché costituire un antidoto. È rimasto indifeso di fronte al’’incultura grillina. È restato afono davanti al rosario sventolato da Matteo Salvini nelle piazze e nell’aula del Senato.

È stata tagliata alle radici la cultura della mediazione e del dialogo che ha sostenuto fin dalla sua fondazione il Partito democratico e prima l’Ulivo. Gli effetti di lungo periodo si sono visti a Verona, dove un candidato come Damiano Tommasi, obiettore di coscienza al servizio militare, sei figli e una sola moglie, fondatore di un istituto dedicato a don Lorenzo Milani, ha rischiato la scomunica da parte di un vescovo che invece di fare il pastore di anime si è autoproclamato capo di una piccola setta intollerante e si è messo a escludere dall’insegnamento un prete che aveva osato contraddirlo. E c’è la difficoltà a far sentire la propria voce anche sulla guerra e sulla pace.

È la deriva americana: negli Usa il presidente democratico Joe Biden, il secondo cattolico alla Casa Bianca dopo John Kennedy, è stato escluso dalla comunione dai vescovi conservatori Usa e riammesso da papa Francesco. È questa la sfida che don Matteo Zuppi deve affrontare: non solo all’interno della chiesa, ma nel cuore della società italiana.

Ricostruire questa cultura significa ripristinare lo spazio della politica: mediazione e dialogo, non ring di scontro tra valori e interessi che si presentano come assoluti, un mosaico frammentato che non si può tenere insieme. E contribuire a evitare di trasformare la campagna elettorale 2023 in un nuovo scontro di civiltà, in un paese che arriverà al voto sfiduciato, lacerato e impoverito.

Va in questa direzione l’apertura della Cei alla legge sullo ius scholae. Il sintonizzarsi di Zuppi con le difficoltà economiche degli italiani, aggravate da «fragilità e solitudini», il rispetto per le forze politiche in campo, «con laicità e senza toponomastiche mentali antiche di sessant’anni», come ha detto il neo presidente della Cei nelle prime interviste ai giornali dopo la nomina e nella lettera per la festa della Repubblica del 2 giugno indirizzata «a chi lavora nelle istituzioni»: «Le persone come lei, diceva la mistica Madeleine Delbrêl, sono il filo che tiene insieme il vestito. La capacità del sarto è proprio quella di non farlo vedere, ma il filo è necessario perché i pezzi di stoffa si reggano insieme».

Vanno in questa direzione alcuni tentativi di ritessitura. Tra i più interessanti, c’è il gruppo Connessioni del padre gesuita Francesco Occhetta, che in primavera ha organizzato incontri tra giovani arrivati da tutta Italia con la ministra Marta Cartabia, il capo gabinetto di Mario Draghi, Antonio Funiciello, il consigliere di Sergio Mattarella, Gianfranco Astori. Seminari non pubblicizzati con nomi non casuali, non è il riflettore che interessa, perché la semina è di lungo periodo.

Ma non basterà la presenza nelle istituzioni, ai vertici dello stato, del governo, dei partiti o della conferenza episcopale, bisogna tornare a una presenza nella società: la crisi culturale e politica dei cattolici va di pari passo con quella delle altre culture democratiche e la ricostruzione interessa tutti. Non basta occupare il vertice nelle istituzioni, le posizioni di potere, c’è la necessità della profezia, ascoltare una richiesta di cambiamento che va oltre i confini delle strutture, che le strutture da tempo non riescono più a rappresentare.

I cattolici si sono ritrovati, come tutti gli altri italiani, con una politica senza società e una società senza politica. Così è appassita la «bellezza della democrazia», come la chiama Zuppi, don Matteo. Così va fatta rifiorire, custodendola contro gli apprendisti stregoni della crisi.