Si conclude la pubblicazione del “corpus” esoterico più misterioso dell’umanità. Una ricerca del divino attraverso la mistica e l’abbandono del logos
«Egli, per primo fra i filosofi, dalla fisica e dalla matematica si volse alla contemplazione degli dei; per primo, disputò molto sapientemente sulla maestà di Dio, sull’ordine dei demoni, sulle mutazioni delle anime». Così scriveva alla metà del Quattrocento Marsilio Ficino, riferendosi a Ermete Trismegisto. Quando Leonardo da Pistoia, di ritorno da un viaggio in Oriente, portò in Toscana una copia greca del Corpus Hermeticum , Cosimo de’ Medici ordinò proprio al fondatore dell’Accademia fiorentina di interrompere il suo lavoro di traduzione di Platone per dedicarsi subito a una resa in latino di quell’antica raccolta di testi sapienziali.
Non pare un caso se in un’età malata di “indietrismo”, per dirla con papa Francesco, dove né la memoria né l’aspettativa teorizzate da Agostino nelleConfessioni sembrano più funzionare a dovere, si ripropone all’interesse collettivo un classico dell’esoterismo come ilCorpus Hermeticum , attribuito a un autore che, già dotto nelle scienze, avrebbe volto la propria speculazione al rapporto fra tempo ed eternità. Dopo tre volumi – dedicati rispettivamente alle sapienze occulte, al Dio cosmico e alle dottrine dell’anima – un quarto tomo chiude, con il tema del “Dio ignoto”, la monumentale opera di studio del Trismegisto compiuta nel secondo dopoguerra da padre André-Jean Festugière, adesso disponibile in versione italiana grazie alla traduzione curata da Moreno Neri per Mimesis. Benché, dopo la scoperta dei codici copti di Nag Hammadi, alcune tesi di Festugière possano considerarsi superate, l’opera del domenicano francese resta fondamentale per un approccio alla letteratura ermetica e alla sua storia.
Come rimarcato anche nell’ampia postfazione di Neri, la vicenda di questi testi sembra essere stata improntata all’equivoco. Nonostante la passione per un’altra raccolta esoterica grosso modo coeva, gliOracoli caldaici , i primi neoplatonici non si sarebbero curati degli scritti ermetici perché li avrebbero confusi con la tradizione gnostica, contro cui si era espresso Plotino. Il precettore del figlio di Costantino, Lattanzio, li avrebbe invece amati, ritrovandovi delle profezie della rivelazione cristiana. Nell’impero romano d’Oriente, il superlativo “trismegisto” sarebbe stato accostato alla Trinità. Più tardi, l’erudito Michele Psello – forse ispirato dai cosiddetti Sabei, riparati a Bisanzio a seguito della persecuzione abbaside in Mesopotamia – avrebbe riconosciuto in Ermete un contemporaneo di Mosè, influenzando profondamente le epoche a lui successive, compreso tutto il Rinascimento, almeno fino al filologo protestante Isaac Casaubon, che avrebbe correttamente riportato la datazione degli Hermetica ai primi secoli della nostra era.
Il quarto volume dell’opera di Festugière si concentra sulla somma portata filosofica del messaggio ermetico. «Che cos’è Dio, il Padre, il Bene, se non il fatto che, di tutte le cose, quando esse non ci sono più, esiste almeno la sostanza stessa del reale? ». Che cos’è Dio, in altre parole, se non il sostrato comune ai vari enti, che impedisce l’esistenza del discontinuo? IlCorpus Hermeticum riproponeallora il dualismo della caverna platonica – un Dio ignoto occultato da un cosmo apparente – e ne accoglie il superamento per via mistica. Non la pseudo- mistica del sentimento, della preghiera, che anela a Dio ma ne conserva la distanza, foss’anche solo «di due archi o forse meno», come recita il Corano. Piuttosto, una mistica autentica, che non è devozione, e che mira all’unione effettiva di umano e divino.
Se il quarto Vangelo – non per caso redatto a Efeso, patria di Eraclito – si apre con un inno al Logos, l’ermetismo raccomanda la destrutturazione della ragione, postulando l’impossibilità di accedere a Dio per il tramite della conoscenza ordinaria, che tramuta illusionisticamente il Tutto in uno spazio- tempo. Solo aprendo “l’occhio del cuore” (l’aynul- qalb del sufismo) ci si potrebbe piuttosto risvegliare dai miraggi del logos, e dall’identificazione con il proprio Io, come da un sogno: l’illuminato risorgerebbe così oltre la porta dell’antico dio egizio Aker, signore del tempo, conoscendo l’eternità dell’istante compreso fra “prima” e “dopo”, avvinto in un entanglement che è poi l’Essere eleatico. Questo stato di coscienza, questa gnosi, paragonabile alla vidy? dell’Advaita Ved?nta, si configura dunque a tutti gli effetti come una a-teologia, ovvero una teologia senza logos. Viene da chiedersi, tuttavia, se illimes metafisico fra fenomeno e noumeno possa essere davvero varcato; se non si possa, piuttosto, ricercare l’assoluto nel relativo. Se non ci si debba necessariamente limitare a un contenimento degli estremismi dell’individualismo, senza la mortificazione dell’identità. Se non sia insomma auspicabile – ma pure inevitabile – trovare nella relazione, in un’autentica dialettica con l’Altro (implicante, certo, una qualche sottrazione dell’Io), quella «sfera infinita il cui centro è ovunque e la cui circonferenza in nessun luogo».
Quando Leonardo da Pistoia portò in Toscana una copia greca, Cosimo de’ Medici ordinò a Ficino di occuparsi subito della traduzione dell’opera “Che cos’è Dio, il Padre, il Bene, se non il fatto che, di tutte le cose, quando esse non ci sono più, esiste almeno la sostanza stessa del reale?”