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L’intervento di Cristiano Leone sul futuro del Santa Maria della Scala conferma una tendenza ormai consolidata a Siena: la capacità di elaborare narrazioni affascinanti, corredate da nomi prestigiosi e visioni internazionali, che però faticano a tradursi in risposte concrete alle condizioni materiali della città e del complesso monumentale.
Il masterplan affidato a studi di architettura di fama (Odile Decq, LAN, Hannes Peer), la programmazione che alterna contemporaneo e patrimonio, l’idea di riattivare gli spazi vuoti con residenze artistiche, incubatori culturali e un ostello creativo: tutto contribuisce a un racconto di rinascita seducente e ben confezionato. Ma è proprio qui che sorge il problema: siamo ancora una volta davanti a una narrazione che sostituisce l’azione.
Il Santa Maria della Scala non è un foglio bianco, ma un corpo vivo e stratificato, segnato da decenni di abbandono, frammentazione gestionale, carenze di manutenzione ordinaria e, soprattutto, dalla mancanza di un radicamento reale nella città. Parlare di “38.000 metri quadri da restituire” rischia di restare un esercizio retorico: non è la quantità di spazi a determinare il valore culturale, ma la capacità di metterli al servizio di un progetto coerente, sostenibile e continuo. Finora, ciò che si è visto è una ripetizione ciclica di annunci: il Santa Maria come “grande polo culturale”, come “motore della rinascita cittadina”, come “laboratorio internazionale”. Promesse che non trovano mai compimento.
Il nodo centrale è quello della governance e delle risorse. Aprire lo statuto a soggetti privati e costruire un network internazionale è un’idea interessante sulla carta, ma nella pratica richiede relazioni solide, investimenti strutturali e la capacità di attrarre fondi in modo stabile. Va riconosciuto a Leone di essersi mosso con energia per cercare capitali e partnership—ha attivato contatti, presentazioni, dossier. Tuttavia, questo lavoro non si è tradotto in impegni finanziari strutturali né in accordi pluriennali resi pubblici per il Santa Maria: al massimo sponsorizzazioni episodiche, insufficienti a garantire continuità e gestione ordinaria. In questo divario tra eleganza formale del progetto e fragilità del contesto emerge il vero rischio: un disegno raffinato che non si ancora alle condizioni reali del territorio.
Ma c’è un punto ancora più critico: il ruolo della committenza. Non esistono ad oggi atti di Consiglio comunale che definiscano obiettivi, linee guida o indirizzi politici sul Santa Maria della Scala. Non è stato avviato alcun processo di coinvolgimento della cittadinanza, delle istituzioni culturali locali, delle università, né del tessuto sociale ed economico della città. Tutto appare delegato a figure esterne e agli “archistar”, senza che sia chiaro il rapporto con l’urbanistica cittadina e con le necessità sociali del territorio. Il Santa Maria della Scala, collocato in posizione strategica tra Piazza del Duomo e il centro storico, non può essere pensato come un organismo isolato: deve dialogare con il tessuto urbano, con i flussi turistici, con le politiche abitative e con le priorità sociali di Siena. L’assenza di questa connessione indebolisce alla radice qualsiasi masterplan.
(Il corpo umano e il corpo urbano: il tema della cura
Il Santa Maria della Scala è stato per secoli un luogo della cura del corpo e della sofferenza umana. I senesi vi si riconoscevano in una relazione univoca, segnata dal dolore, dalla fragilità e dalla possibilità di guarigione. In quell’edificio, il corpo individuale era al centro: ferito, malato, bisognoso di assistenza. La comunità trovava nel Santa Maria non solo un ospedale, ma un riflesso della propria vulnerabilità condivisa.
Oggi, però, il corpo umano stesso è cambiato. È sottoposto a nuove forme di ingerenza: dispositivi tecnologici che lo monitorano, interventi medici che lo ridefiniscono, pratiche psicologiche e sociali che ne trasformano la percezione. La cura non è più solo sanitaria, ma filosofica, antropologica, psicologica. In questo scenario, il Santa Maria non può limitarsi a rievocare il passato: deve interrogarsi su quale forma di “cura” sia possibile oggi, in un mondo in cui il corpo stesso è invaso da logiche tecnologiche, economiche e simboliche sconosciute nei secoli precedenti.
E qui il parallelo con il corpo urbano diventa inevitabile. Come il corpo umano, anche la città è attraversata da forze esterne che la trasformano: flussi turistici, investimenti globali, tecnologie invasive, pratiche sociali nuove. Il Santa Maria, reinserito organicamente nel tessuto urbano, non è un elemento neutro: è un “grande fuori scala” che, se riattivato, inevitabilmente cambia la città attorno a sé. Non può più essere pensato come un organismo a sé stante, chiuso nella sua monumentalità: deve assumere consapevolezza di essere un corpo urbano che interagisce, modifica e viene modificato dalla comunità che lo circonda.
Questa è la vera sfida culturale e politica: ripensare il Santa Maria come spazio di cura non solo della memoria, ma del presente, non solo del corpo individuale, ma del corpo collettivo. Una cura intesa come relazione tra persone, città e istituzioni, capace di dare continuità e senso a un monumento che, altrimenti, rischia di restare una cornice vuota per annunci e installazioni effimere.)
Anche la programmazione culturale, pur curata e di qualità (dalla mostra sul Vecchietta al festival XENOS, fino alla grande installazione di Hashimoto), rimane confinata all’effimero: eventi che si succedono senza costruire continuità né generare un vero legame con la comunità. A Siena non servono “cascate di aquiloni” per immaginare il futuro, ma un lavoro quotidiano, meno spettacolare e più profondo, capace di riattivare il rapporto tra istituzione e cittadinanza.
In questo senso, anche il linguaggio di Leone appare emblematico: termini come “dialogo”, “casa della città”, “eredità”, “innovazione” rischiano di ridursi a lessico della promessa. È la retorica di un’istituzione che parla di futuro senza avere ancora affrontato il presente: le difficoltà gestionali, le fragilità del tessuto culturale locale, l’urgenza di cura e manutenzione degli spazi.
La vera sfida non è immaginare un Santa Maria della Scala onnivoro, hub totale capace di fare tutto e il contrario di tutto; la sfida è individuare una funzione primaria chiara, attorno alla quale costruire un’identità solida. Senza questa chiarezza, ogni masterplan rischia di restare una cornice vuota.
La storia recente del Santa Maria è infatti la storia di un luogo continuamente “in potenza” e mai davvero “in atto”: un contenitore dove il futuro viene annunciato, ma raramente realizzato. La retorica dell’annuncio finisce così per diventare un modo di rinviare all’infinito le decisioni concrete. E in questo gioco Siena perde tempo prezioso, mentre il complesso, che potrebbe essere davvero un cuore pulsante della città, resta sospeso in una condizione di incompiutezza.