Torna in libreria una selezione di poesie della grande Dickinson: tra parole e versi vulcanici, emerge la sua tumultuosa religiosità
Emily Dickinson torna ancora una volta nelle librerie italiane con una bella raccolta di 350 Poesie (delle quasi 1800) tradotte per Einaudi da Silvia Bre e introdotte da Sara De Simone. E così si aggirerà ancora per le case dei suoi lettori che possono immaginarla vestita di bianco come per vent’anni ha fatto aggirandosi tra le pareti della sua casa fino alla morte, da «monaca ribelle», ma anche da «femina insania», come lei stessa si definiva all’adorata amica e cognata Susan. Non donna esile e diafana, come qualcuno l’ha immaginata, ma passionale e amante della vita, dei colori e dei sapori, pronta a scrivere poesie sul retro dell’incarto di un cioccolatino al rum o della ricetta della torta al cocco.
In questa condizione i fiori «sono vicini, eppure stranieri» e le basta, afferma, «attraversare una stanza» per trovarsi «nelle isole delle spezie». Il viaggio diventa dunque una figura dell’anima. La poesia autentica è «prancing Poetry», poesia che salta, al galoppo, capace di far viaggiare e di condurre «altrove». Emily ci è compagna di avventure, dunque.Il suo piedino delicato ama i burroni: «Dietro di me — l’eternità strapiomba — / davanti a me — l’immortalità — / io — il termine tra loro». La sua femminile grazia tenta di proteggersi, ma — confessa — «Se osavo rintanarmi in una grotta / le pareti — cominciavano a parlare — Il creato era una crepa roboante — / che mi espone». La poesia è per lei una maniera di stare esposti al grande spacco («Crack») del mondo che lascia scoperti. Ma anche un modo di contemplare il mistero che pervade un pozzo d’acqua nel giardino di casa.
Nella solitudine si sviluppa una fitta corrispondenza col critico Thomas Wentworth Higginson, già pastore della Chiesa Unitariana, avviata nel 1862.
Ma perché proprio Higginson e non un critico come, ad esempio, Ralph Waldo Emerson, che in quegli anni aveva “scoperto” e valorizzato un poeta come Walt Whitman? Probabilmente perché la Dickinson era rimasta colpita da alcune parole scritte da Higginson sull’ Atlantic Monthly , rivista di cui ella era attenta lettrice: «La lingua umana può essere educata e impotente, modellata faticosamente dagli elevati pensieri che enuncia; oppure può contenere una così ardente vitalità, arricchirsi di così delicate analogie che ogni frase palpiterà, ed elettrizzerà il lettore con la pura fascinazione delle sillabe… Spesso una sola parola ci dirà quello che volumi e volumi hanno invano tentato di comunicarci; in una sola parola possono accumularsi anni di passioni e quasi un’intera vita in un’unica frase…».
La Dickinson era affascinata dalla vitalità ardente della lingua. Questa desiderava per le sue poesie, le quali dovevano essere cariche di tensioni: non pensieri, ma cariche elettriche. E infatti chiederà al suo corrispondente: «È troppo occupato per dirmi se la mia poesia è viva? La mente è così vicina a sé stessa che non distingue chiaramente — e non ho nessuno a cui chiedere —. Se mai le sembrasse cherespiri — e avesse il tempo di dirmelo, la mia gratitudine sarebbe repentina». La mia poesia è viva, respira? Questo vuol sapere.
Il lettore è coinvolto in un’avventura in cui confluiscono astrazione e immediatezza, senso della morte, gusto per la natura e visione della trascendenza, realismo e percezione del mistero. Ma niente di etereo: è tutto una esplosione. La sua poesia? «Una bomba presa e stretta al petto». La sua vita? «Un fucile carico».
È Dio che cerca, lei pronta a sparare versi tra grotte e strapiombi vertiginosi. «A grandi altezze cresce Dio», scrive. La sua poesia «scala orizzonti» per raggiungerlo. Ma più vi si accosta, più ne sente la mancanza, afferma. Cresciuta nella tradizione calvinista così come era praticata nella valle del fiume Connecticut, proprio nella tradizione puritana innesta i tanti elementi della sua sensibilità e della sua poesia. È forse unica tra i poeti di lingua inglese ad adoperare quasi esclusivamente metri dell’innologia sacra protestante. La fede le dà un senso di infinito, e tuttavia mai di pace. Essa è come il lampo che «ai nostri piedi apre un paesaggio straniero». Lei, da poeta «rivelatore di immagini» qual è, coglie quel lampo e lo fissa nella pupilla di chi la legge. Ma c’è pure sempre, implacabile, «il dente che rode l’anima». In una lettera, ancora sedicenne esprime una potente immagine del suo stato interiore riguardo alla fede: «Sento che sto navigando sull’orlo di uno spaventoso abisso, a cui non posso sfuggire e nel quale temo che la mia fragile barchetta presto scivoli se non ricevo aiuto dall’alto». In poesia dirà con una vertigine che si sente su un «ponte che oscilla», «senza pilastri», che si protende «oltre il velo».
Che il lettore sia, dunque, pronto alle esplosive tensioni e alle telluriche contraddizioni della poesia dickinsoniana, che si esprime per frammenti, scatti, concatenazioni di bagliori, coaguli di immagini e metafore che vanno in direzione centrifuga, come la lava di un «Vesuvius at Home».