«Non ho mai creduto al sionismo di Hannah», confidava il politico sionista Kurt Blumenfeld all’amico Martin Rosenblüth il 17 gennaio 1946. Eppure leggendo gli articoli che Hannah Arendt scrisse per il settimanale ebraico «Aufbau» tra il 1941 e il 1945, è difficile dubitare dell’autenticità del suo impegno per quella causa, alla quale s’era avvicinata proprio grazie a Blumenfeld.
Ascoltando una sua conferenza a Heidelberg nel 1926 si era convinta che l’assimilazione degli ebrei rappresentasse un vicolo cieco dell’emancipazione e con l’avvento al potere di Hitler nel 1933 ne aveva avuto una drammatica conferma. Fu allora che decise di entrare nell’Organizzazione sionista mondiale (ne sarebbe uscita nel 1943) e d’impegnarsi in un’associazione che promuoveva l’emigrazione dei bambini ebrei dalla Germania in Palestina. Lei stessa, dopo essere riparata a Parigi, considerò la possibilità di trasferirsi in quella regione, allora sotto mandato inglese, ma finì per stabilirsi a New York, dove giunse fortunosamente nel 1941. Poco dopo il suo arrivo in America conobbe il direttore di «Aufbau», Manfred George, il quale prima la chiamò come collaboratrice esterna e poi le affidò una rubrica regolare.
Pubblicato per conto del New World Club e rivolto ai profughi ebrei di lingua tedesca, «Aufbau» si presentava come un forum aperto a ogni voce della diaspora ebraica – da Albert Einstein a Lion Feuchtwanger, a Stefan Zweig –, purché disposta a riconoscersi in una comunanza di destino. Per Arendt quel destino, almeno negli anni della Seconda guerra mondiale, consisteva nel riconoscimento del popolo ebraico in una confederazione di nazioni rappresentate in un Parlamento europeo. Certo si trattava di una posizione anomala nell’ambito del sionismo, sempre più orientato verso la creazione di uno Stato ebraico esteso su tutto il territorio palestinese e di conseguenza sempre più ostile verso gli arabi che abitavano quella regione.
Ciò nonostante, Arendt era allora completamente immersa nella politica sionista, che considerava uno strumento ambiguo ma necessario per l’auto-emancipazione degli ebrei come popolo e per il loro riscatto dalla persecuzione nazista. Di qui il suo appello martellante alla costituzione di un esercito ebraico che si affiancasse a quelli delle altre nazioni europee, poiché «un uomo attaccato in quanto ebreo non si può difendere in quanto inglese o francese».
Nella limpida e puntuale prefazione che presenta la ristampa di questa raccolta giornalistica di Arendt, Enzo Traverso osserva giustamente come dai suoi articoli affiorino «i lembi di una retorica nazionalista che stride nella sua opera e non lascerà tracce negli scritti del dopoguerra». D’altra parte non è difficile cogliere in essi le prime crepe di quella modernità ebraica che si sgretolerà sotto i suoi occhi nella seconda metà del Novecento (il rinvio d’obbligo è sempre a Traverso e al suo splendido La fine della modernità ebraica, Feltrinelli, 2013). Anche per questo non è improprio considerare Antisemitismo e identità ebraica – così è intitolata la raccolta – come una specie di laboratorio per Le origini del totalitarismo (1951), nel quale, infatti, Arendt riprenderà tutte le principali questioni affrontate negli scritti per «Aufbau»: dalle radici dell’antisemitismo alla crisi dello Stato nazionale, dalla questione delle minoranze al nodo dell’apolidia.
Per completezza, accanto a essi, andranno tuttavia considerati almeno altri tre articoli pubblicati in inglese – e forse per questo più incisivi – negli stessi anni: «We Refugees», «The Jew as Pariah» e «Zionism Reconsidered» (il primo dei quali apparso in un volumetto a parte, sempre da Einaudi, tre anni fa).
Occorre aggiungere, in conclusione, che leggere Antisemitismo e identità ebraica mentre Israele sta compiendo a Gaza un massacro senza precedenti rappresenta un’occasione di riflessione tanto quanto un motivo di turbamento. Sebbene sia dovere di ogni persona intelligente collocare ciò che legge nel contesto in cui fu scritto, non si può non provare un brivido ogni volta che Hannah Arendt invoca la creazione di un esercito ebraico per la difesa delle comunità sioniste in Palestina.
Per quanto le formazioni militari ebraiche continuamente auspicate dall’autrice per combattere Hitler al fianco degli Alleati non abbiano alcuna relazione con le odierne Forze di difesa israeliane e con ciò di cui si stanno rendendo colpevoli, è impossibile non pensare alla successione di eventi che ha condotto a quello scandalo della storia di cui oggi siamo tutti testimoni.
Hannah Arendt
Antisemitismo e identità ebraica. Scritti 1941-1945
A cura di Marie Luise Knott
prefazione di Enzo Traverso
traduzione di Graziella Rotta
Einaudi,
pagg. 200, € 21