Storie di uomini e fatica lungo il fiume amaro
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31 Luglio 2022Al Palazzo Reale di Milano le opere e le ombre di Ruggero, figlio di Alberto e nipote di Giorgio de Chirico
diFiorella Minervino
La figura spettrale e grigia, priva di volto, arieggia un’eroina di Poussin, se ne sta sopra un fondo cupo a contemplare la vasca dai riflessi di luce a minuscoli tocchi, titolo Malinconia 1 1987, sentimento che avvolge l’artista, quasi un simbolista redivivo, davanti al luogo amato e ritrovato dopo anni: il paesaggio in rovina a vorticosi tratti gialli del ninfeo imperiale del Palatino a Roma. È questo essere leggermente “inattuale” che fa apparire Ruggero Savinio nuovo e arcaico a un tempo, pittore prodigioso dall’immaginazione fertile, tenace nel perseguire l’obiettivo d’una pittura bella e preziosa, intrisa d’ombra, colore, poesia, soprattutto emozioni personali, fuori dal tempo come accade agli amati maestri che lo hanno preceduto, e lui vede come compagni di strada, Tiziano per primo con la stesura sensuale del colore.
Settant’anni di pittura come passione d’un’ esistenza, come pure eredità assimilata, ma soprattutto «melodia interna della vita», che lo accompagna giorno dopo giorno a creare la propria via di emozioni, a rinnovarla, renderla prodigiosa come la materia sapiente intrecciata a poesia, filosofia e scrittura. Del resto, Ruggero Savinio (Torino 1934) si è conquistato a fatica una propria personalità di ombre e di pennellate minuscole sovrapposte, che lui definisce «perizia luminosa» con esiti alti, talora visionari e immagini monumentali. Non è facile misurarsi con l’Olimpo, tanto meno con gli dei che si chiamano Giorgio de Chirico e Alberto Savinio. Tuttavia Ruggero, figlio e nipote dei due Dioscuri, ha accettato il peso di un’eredità soverchiante procedendo per un sentiero lastricato di pietre, viaggi, musei,amati maestri antichi o predecessori da Tiziano a Poussin, a Georges de la Tour a von Marées e Vuillard fino al Ranzoni e il Piccio, creando il proprio linguaggio «scompigliando le forme», elaborando colori speciali come gli azzurri turchesi o i gialli superbi, alla ricerca dell’inafferrabile, delle ombre che generano figure, monumenti antichi, ricordi autobiografici, luoghi cari, memorie incancellabili. Un cacciatore di ombre difficile da imbrigliare, mosso da inquietudini e nostalgia per un’età dell’oro, insensibile alle sirene delle avanguardie che pure ha frequentato. Savinio torna a Milano con un’ampia antologica Ruggero Savinio, Opere 1959-2022 a cura di Luca Pietro Nicoletti (fino al 4 settembre) a Palazzo Reale, con oltre 60 dipinti, disegni, tempere, pastelli, in parte inediti o poco visti da collezioni pubbliche e private che offrono l’occasione di rileggere la sua biografia estetica e filosofica, e ritrovarel’incanto di composizioni dall’indubbia suggestione, dopo l’ultima mostra nel 1999 che lo celebrava al Castello Sforzesco. Ora 10 sontuose sale presentano come in una quadreria i lavori a partire dagli anni della formazione fra Roma, Parigi e Milano, momento fra i più tormentati dell’artista in cerca della propria identità. Svariati i temi, dagli autoritratti, alle figure misteriose che affiorano dallo sfondo, dagli interni ai notturni romani fatti di malinconia, se non i nudi inseriti nella natura fino ai sereni luoghi familiari.
Arduo scegliere fra la Roma dei parchi al tramonto e le rovine archeologiche, o i paesaggi montani e onirici, le forme evanescenti, o i fantasmi di eroi divorati dalla follia come Hölderlin in viaggio da Bordeaux verso casa o Artaud che impazzisce in Irlanda, convinto di brandire il pastorale di San Patrizio. La pendolarità fra arte e vita affiora negli autoritratti, rivelatori degli stati d’animo, come l’uscita dalla soglia con l’amata moglie Annelisa, o l’autoritratto sulla scogliera del 1998 e il magnifico Brighton Beach, 2010, acrilico su tela, una sinfonia dei blu e dei turchesi intorno alla propria immagine appena abbozzata, tuttavia capace di proiettare l’ombra sulla sabbia. Una materia spesso magnifica e corposa che quasi invita a toccarla. «Ho cercato la mia via e le mie emozioni conservando la memoria viva di quello che i miei cari hanno lasciato a me e a tutti gli artisti, dice Savinio, mio padre mi incoraggiava e mi mandava a imparare dallo zio Giorgio; poi ho appreso che la luce nasce dall’ombra, che a sua volta è originata dal caos della materia, come pensavanogli antichi». Alcuni interni familiari anni Novanta paiono frammenti di affreschi strappati, torna sovente il confronto con la mitologia a mezza via fra privato e Olimpo come in Interno con dei ecoppia, 2006. Giardino, 1997, olio su velluto, sembra vibrare nei minuscoli tocchi che accendono di chiarore il cielo, muovere le acque del laghetto, illuminando di rosa il tempio di Esculapio, mentre le due figure scure di spalle, Savinio e il figlio, salutano il luogo magico calato nella boscaglia a frementi tocchi gialli e verdi. L’artista lo commenta: «È il giardino del lago a Villa Borghese, mi emozionava andarci e riscoprirlo con i figli», sentimento che trasmette ai visitatori.
È davvero una buona occasione per ammirare il lavoro di Savinio, scandagliarne i segreti, proprio nel clima di ritorno alla pittura nel segno del Surrealismo e Simbolismo, come testimoniano la Biennale di Cecilia Alemani e le esposizioni intorno. Corposo il catalogo di Silvana Editoriale con delizioso intervento della moglie Annelisa e l’acuta indagine dell’ombra di Emanuele Dattilo.