l’autore da (ri)scoprire
Davide Rondoni
Di lui mi resta il lucente magone di chi ama la vita oltremisura, contro ogni potere, convenienza, di chi è incantato dalla sua fragile, feriale bellezza. Dalla sua sfigurata maestà. Testori l’ho frequentato a lungo. Lasciava il segno come persona non solo come artista. E proprio La maestà della vita volle intitolare la sua raccolta di interventi usciti in Bur Rizzoli dapprima in una collana da lui stesso diretta nel 1980 e poi riediti a cura mia e di Giuseppe Frangi nel 1994. Questi interventi sono al centro della riflessione di Alessandro Gnocchi in Testori Corsaro, edito da La Nave di Teseo. Un agile e documentato ritratto dello scrittore italiano più scandaloso del ‘900.
Figlio di imprenditore brianzolo, allievo a distanza di Longhi – impastato e direi impestato da quella scrittura d’arte – esordiente nei Gettoni di Vittorini con un’opera apparentemente neorealista Il dio di Roserio (1954) e un’opera al cinema trasposta da Visconti, Rocco e i suoi fratelli (1960) che va in sala nello stesso anno di un’opera teatrale, L’Arialda censurata, Testori resta una bestia sfuggente.
Di lui sentii dire da Enzo Siciliano, dominus dei salotti post-moraviani: «A Roma Testori non entrerà mai». Come se fosse la peste. E certo Testori di peste, lombarda e manzoniana, e di nuovi appestati, i reietti dei dintorni delle stazioni, o i protagonisti di storie minime e tragiche di disperanza, se ne intendeva. Aveva lui una peste addosso: la fame di assoluto. E cosa ci poteva fare il salotto culturale di quella fame? Lo frequentai che avevo vent’anni e poco più. Mi disse, dinanzi alle poesie che mostravo a Luzi e al suo ammirato Caproni: devi tradurre Rimbaud. Come se uno dicesse a un ragazzo alle prime armi nel calcio scendi in campo in finale di Champions League. Sfidava a misurarsi con il precipizio dell’arte, con il «merda la poesia» del genio ragazzo di Una stagione all’inferno, uno che come lui era «mistico allo stato selvaggio», secondo Paul Claudel. Non sopportava l’arte ridotta al proprio ironico fantoccio, lui che amava i minori secenteschi lombardi e i neoespressionisti tedeschi, non tollerava la poesia ridotta a ghirigori letterario, la critica a vacuità. E quando gli citavo Cristina Campo che diceva che lo scrittore deve essere come un entomologo che ha grande «attenzione» per la realtà scuoteva la testa: «No, non basta l’attenzione, occorre anche patirla la realtà».
Poi Testori mi maledisse, forse non ero come voleva, forse dissi qualcosa di troppo, o di meno, forse lo ferii nel suo amore ferito – si scatenò, iroso, violento in una lettera di commiato. Dopo anni lo ricercai, stava male, ci frequentammo nuovamente, a lungo, e fui tra i primi insieme ad arrivare al suo capezzale al momento della morte.
Gnocchi nell’informatissimo saggio traccia un ritratto del poeta che frequentava i diseredati delle panchine alla Centrale e dalle colonne de Il Corriere della Sera e del battagliero settimanale Il Sabato colpiva le moine di un mondo culturale ormai bolso e chiuso alla vita reale, leggeva lo sfasciarsi del marxismo nel suo apparente contrario, ovvero un materialismo cieco che finiva per accomunarlo alle direttive del più aggressivo consumismo. Al suo fianco in pochi, ma autorevoli come Carlo Bo o GiorgioBocca o profetici, come Augusto Del Noce che previde l’evoluzione del PCI in una specie di partito radicale (oggi la questione è evidente). O come don Giussani che gli fu fraternissimo amico. Con i suoi ragazzi, i ciellini, lui, poeta omosessuale e provocatore, fece un pezzo di strada e generò alcune avventure culturali vivaci e serie.
Testori, come Pasolini (ma le affinità finiscono qui) documentava che solo lo sguardo attento alla sacralità della esistenza umana – sorpresa nelle figure anche marginali, tragiche della cronaca, come gli sconosciuti suicidi, i ragazzi sperduti, gli appestati- poteva opporre ancora un barlume di resistenza alla sconfinata fame del sistema che riduce le persone a numero, a funzione o sciame di dati necessari al mercanteggiare su tutto. Era questa fame di sguardo sacro che muoveva i suoi interventi, che fossero d’arte o di società, come dice un gergo giornalistico che non poteva contenerne lo straripare.
Quello sguardo lo aveva avuto su di sé da un ferroviere che una notte lo trasse via da un proposito suicida. E l’ebbe dalla madre, alla cui fine – che per lui fu anche inizio di riavvicinamento alla fede- dedicò lo struggente Conversazione con la morte nel 1978, scritto per Renzo Ricci. L’attore però morì prima di andare in scena. E allora in scena andò lui stesso, spinto dal compianto Emanuele Banterle, regista de Gli Incamminati, realtà teatrale da lui fondata, e su quella scena portò – a volte apparendo insieme ad attori come Franco Branciaroli – il suo teatro tragico e cristiano, continuazione capovolta delle trilogie bestemmiatrici degli anni ’60: Interrogatorio a Maria, Factum est, In exitu, Confiteor, e il capolavoro de I promessi sposi alla prova.
Franco Parenti, Lucilla Morlacchi, Giovanni Crippa, Andrea Soffiantini e altri portavano i suoi testi violenti, sbranati, tenerissimi e scandalosi. Ebbe la rivolta dei benpensanti. Ma oggi i migliori del teatro, da Sandro Lombardi a Iaia Forte cercano di riportare, pur tra difficoltà, la sua voce. Dapprima ben introdotto nei circoli culturali che contano a Milano, divenne poi bersaglio di polemiche che lui stesso accendeva coi suoi interventi. Mirava a bersagli grossi, dal gotha dell’arte a quello della politica, da Bonito Oliva a Napolitano, dalla Biennale di Venezia alla Enciclopedia edita da Einaudi. Lo accompagnavo a volte dal suo studio in via Brera dove tra mucchi di libri e quadri appariva il suo sguardo azzurro accesissimo fino alla sede del Corriere, dove si sedeva accanto a Tobagi e scriveva i suoi pezzi. Gnocchi ricostruisce le vicende interne al Corriere che determinarono la scelta di Testori come successore di Pasolini nonché la sua seguente limitazione alle pagine d’arte. Di Pasolini con cui ebbe stima ma freddezza di rapporti mi disse che fece l’errore di opporre al Palazzo del potere il Palazzetto della cultura. Scrisse però il più bell’articolo, il più umano alla sua morte. Se Pasolini era corsaro, Testori era naufrago. Cosi avrei titolato il libro, Testori naufrago, per marcare una differenza e per echeggiare quel leopardiano struggente infinito che Testori scopriva anche nella vita minuscola o minorata o nei feriali panorami lombardi.
Ogni tanto Gnocchi si lascia andare al lamento sulla mancanza di un Testori o un Pasolini. Ma lui stesso ammette che certi articoli oggi non verrebbero pubblicati. Ne so qualcosa. Credo che autori alla Pasolini e Testori ci siano, solo che forse sono agonizzanti culturalmente i giornali e i media, per gli stessi motivi per cui Testori accusava la cultura dei suoi anni. Alla poltiglia del già insorgente politicamente corretto opponeva un pensiero e una lingua appestati, celestiali, froci e virili e materni, bestemmianti e devoti. Vivi.