«Il vostro Ponti, ben diverso da questa fotografia, con fraterno affetto e gratitudine profonda»: così Gio Ponti (1891-1979) dedicava il suo ritratto, scattato da Ghitta Carell (1899-1972), all’amico e sodale Marcello Piacentini (1881-1960), deus ex machina della politica architettonica del regime. La fotografia è contenuta in un album esposto in mostra, inedito, insieme a quella di Giuseppe Pagano (1896-1945), Giovanni Michelucci (1891-1990), Giuseppe Capponi (1893-1936), solo per citare alcuni nomi, donato dagli stessi architetti a Piacentini, all’indomani della realizzazione della Città Universitaria (1932-35) di Roma, alla quale tutti avevano partecipato, sotto l’abile regia dell’Accademico d’Italia.
L’acutezza di Ponti rivela subito una caratteristica della fotografa ungherese, naturalizzata italiana, celebre per i ritratti di tutte le personalità di rilievo, o aspiranti tali, degli anni tra le due guerre. La Carell non si limitava a fotografare, ma inventava i suoi soggetti, enfatizzava caratteristiche fisiognomiche, studiava posture, abbigliamento, espressioni, alterava profondamente le immagini registrate sulle grandi lastre negative in vetro, fino a trasfigurare il soggetto e infondergli una nuova personalità, non necessariamente corrispondente a quella reale.
In periclitante equilibrio tra la ritrattistica cinquecentesca, con una particolare predilezione per Bronzino, e il glamour hollywoodiano, Ghitta Carell dispensava in un registro accessibile al grande pubblico, anche quello dei rotocalchi, l’esplosiva sintesi tra la memoria dell’antico e la lezione dell’avanguardia che il dibattito più colto delle arti e dell’architettura – il Novecento di Margherita Sarfatti (1880-1961) è il modernismo monumentale di Piacentini, entrambi ritratti dalla Carell – stava legittimando come una delle immagini del regime. Così se Ponti diventa un divo del cinema, Mussolini (1883-1945) si trasforma in un suadente dandy e la giovanissima Palma Bucarelli (1910-1998) nella protagonista di un kolossal. Il 4 febbraio 1934 sulla prima pagina de «L’Italia Letteraria», viene pubblicato il ritratto di Mussolini in compagnia di due architetti – Giuseppe Vaccaro (1896-1970) e Piacentini – oltre a quelli di Massimo Bontempelli (1878-1960) e di Roberto Longhi (1890-1970).
Significativamente, proprio all’inizio del decennio nel quale l’architettura s’imporrà come uno degli strumenti più vigorosi ed efficaci del Fascismo per autorappresentarsi e per ammodernare il volto delle città – in primo luogo di Roma, dove la fotografa si è trasferita – la Carell inizia a frequentare e a ritrarre architetti. Il rapporto della Carell, oltre che per una naturale e ineludibile contingenza, legata alle comuni ambizioni e frequentazioni, è mediato probabilmente dalla stessa Sarfatti, alla quale si può ascrivere il contatto tra la fotografa e il potentissimo Piacentini. La Carell a sua volta, in implicito scambio, perorava a Piacentini la causa di Corrado Vigni (1888-1956): uno scultore fiorentino a cui era legata, che raccomandava per incarichi artistici, soprattutto negli edifici pubblici. Piacentini affiderà a Vigni alcune sculture per la chiesa di Cristo Re (1931-34) e per la Città Universitaria a Roma, e per il Palazzo di Giustizia di Milano (1932-40).
Tra le fotografie in mostra, oltre a quelle citate, spiccano quelle di Eugenio Montuori (1907-1982), con la cravatta e le maniche della camicia arrotolate per mostrare le braccia virili mentre trattiene dei disegni di progetto; Adalberto Libera (1903-1963), come Ponti trasformato in un divo cinematografico, con la sigaretta dalla quale si alza un filo di fumo; Luigi Moretti (1907-1973), la cui imponenza fisica e letteralmente sublimata in un primo piano di tre quarti che lo rende quasi irriconoscibile. Insieme agli architetti compare anche Antonio Muñoz (1884-1960), storico dell’arte, a capo dell’ufficio Antichità e Belle Arti del Governatorato di Roma, demiurgo delle trasformazioni archeologico-monumentali della Roma mussoliniana. Tutte queste personalità confermano la figura di Piacentini come elemento chiave di relazione con la Carell: lo stesso vale anche per l’architetto milanese Piero Portaluppi (1888-1967) – autore della Villa Necchi Campiglio (1932-35) a Milano, dove si tiene la mostra – ritratto con espressione sorniona e posa napoleonica, con la mano infilata nel panciotto.
I ritratti sono realizzati secondo una prassi tipica, che in questo caso si affida a un registro meno eccentrico rispetto a quello di alcuni suoi famosi scatti, ma sofisticato e incisivo, che conferisce ancora oggi lavoro della Carell un fascino sottile e indecifrabile. Quella che Susan Sontag (1933-2004) in On Photograpy (1973) definisce «l’innocente complicità di Ghitta Carell» rivelatrice di «una verità cruda e precisa», risulta così efficace nel fissare i caratteri dei ritratti, che sembrerebbe lecito metterne in dubbio il carattere di innocenza, in quei casi dove la fotografa punta in una direzione sensibilmente diversa, seppure dissimulata, da quella desiderata dalla committenza, come del resto avveniva anche per l’arte e l’architettura. Un gusto che sopravviverà, seppure semplificato, alla fine del secondo conflitto mondiale, ma che sarà completamente travolto alla fine degli anni 70, in coincidenza con il tramonto pressoché sostanziale (le date di morte dei protagonisti sono significative) delle generazioni che l’avevano legittimato.
Ghitta Carell.
Ritratti del Novecento
A cura di Roberto Dulio
Milano, Villa Necchi Campiglio
Fino al 12 ottobre