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In un presente accelerato e senza più respiro serve il coraggio di guardare oltre l’ovvio, sfidando la logica dell’immediato e riscoprendo lo spazio del possibile. Serve uno sguardo lungo, capace di aprire scenari dove oggi vediamo limiti
Viviamo sospesi tra due forze contrarie. Da un lato c’è la vertigine del presente che accelera, con crisi che si susseguono senza tregua; dall’altro un futuro che pare sempre più difficile da immaginare. Presi in questa morsa, diventiamo esperti del “crash test” quotidiano ma analfabeti del domani. L’orizzonte si contrae in calcoli di rischio, non in visioni da desiderare.
La cultura popolare ce lo mostra con chiarezza: nei film, nelle serie, nei romanzi, il futuro non è più utopia ma distopia. È lo scenario in cui la tecnologia ci osserva e ci controlla, il clima diventa insostenibile, l’umanità si dissolve in un algoritmo. Non c’è più la fiducia ingenua nelle “città del sole” o nei mondi ideali di un domani luminoso. Rimane la claustrofobia di un presente che si ripete, come se il futuro fosse stato sequestrato.
Lo scrittore americano Chuck Klosterman, in But What If We’re Wrong?, propone un esercizio salutare: pensare al presente come se fosse già passato. Dobbiamo guardarci da fuori: non come dalla luna, ma fuori dal nostro tempo. Chiederci: come ci giudicheranno coloro che verranno dopo? Ciò che oggi ci appare inevitabile, domani potrebbe sembrare cieco. L’idea è semplice ma destabilizzante: forse abbiamo torto. Forse le nostre certezze sono fragili. La realtà non è una lastra di granito, ma una bozza, una beta version, una scrittura in corso. Se è così, allora immaginare, sognare, non è un lusso: è un dovere civile e spirituale.
Il problema è che abbiamo confuso la pianificazione con la visione. Pensare al futuro non significa redigere tabelle di marcia, ma esercitare una responsabilità creativa. La pianificazione rassicura, la visione espone. Eppure, senza il rischio del tempo lungo, senza la promessa del “non ancora”, siamo prigionieri dell’immediato. In un mondo ossessionato dalla performance, parlare di futuro è un atto di resistenza. Può persino diventare una forma di preghiera: non una fuga dal reale, ma uno spazio del possibile. In fondo, ogni gesto creativo è preghiera: un fiat mihi, “sia fatto di me” detto a ciò che ancora non si vede. Come dice Maria
all’angelo che gli annuncia l’inverosimile.
Ma l’immaginazione non si improvvisa. È un’arte difficile che richiede allenamento. Ha bisogno di linguaggi nuovi, di simboli inediti, di combinazioni improbabili. E soprattutto necessita di spazi ibridi: luoghi in cui poeti e scienziati possano parlarsi, dove filosofi e ingegneri, teologi e coder possano contaminarsi. Hannah Arendt scriveva che la politica nasce quando gli esseri umani si mettono in mezzo al mondo per discuterlo, plasmarlo, reinterpretarlo. Immaginare il futuro è dunque un atto politico, non perché governi, ma perché apre. Non perché risolve, ma perché dischiude possibilità.
In questa luce, diventa essenziale tortuale. nare a pensare il rapporto tra tempo e spazio. La modernità ha costruito imperi di cemento e di confini, ma il nostro presente è definito sempre più dal tempo: crisi climatiche che si giocano in decenni, mutazioni tecnologiche che si misurano in mesi, algoritmi che anticipano le nostre scelte in frazioni di secondo. Il tempo ha scavalcato lo spazio come misura dell’umano. Ciò che accade in un villaggio remoto diventa in poche ore patrimonio globale, eppure i nostri strumenti politici rimangono ancorati a mappe e sovranità. Non è, ovviamente, questione di sognare un governo planetario, ma di coltivare la coscienza che ogni gesto locale ha risonanze globali. L’immagine che può aiutare a cogliere questa sfida è quella dell’hacker. Nella cultura popolare è ridotto a pirata digitale, ma nell’etica originaria l’hacker è colui che cerca il codice profondo. Non si accontenta della superficie, ma smonta i meccanismi per capirli, riscriverli, trasformarli. In questo senso, è un pensatore spiri Non a caso, negli anni Settanta, la cultura hacker evocava e citava sant’Agostino, Dante, persino la Genesi. Ma davvero pochi lo sanno.
Agostino invitava a tornare dentro se stessi: Noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas.
L’hacker, come il mistico, esplora l’interiorità per comprendere le regole nascoste del mondo. Dante, con il suo viaggio poetico, mostra come l’intelligenza possa attraversare gli inferni dell’umanità per giungere alla visione. E nella Genesi, l’uomo che dà nome alle cose diventa il primo programmatore simbolico: nominare significa codificare, ordinare, partecipare all’opera creatrice. L’hacker è dunque un lettore e un riscrittore del reale.
Questa figura si lega a un altro aspetto fondamentale: la necessità di mantenere uno spazio critico. In un’epoca in cui l’algoritmo detta il ritmo, l’immaginazione diventa sovversiva. Non possiamo accontentarci di vivere dentro un mondo ottimizzato, ridotto a flussi di dati. Un futuro autentico deve contenere ciò che oggi non sappiamo nemmeno concepire. Immaginare il futuro è un’arte difficile. Richiede allenamento. Non si improvvisa. È un’arte che ha bisogno di linguaggi nuovi, di simboli inediti, di combinazioni improbabili. Serve uno spazio ibrido in cui i poeti possano parlare con gli scienziati, i filosofi con gli ingegneri, i teologi con i coder. Walter Benjamin ricordava che ogni epoca sogna la successiva, ma quel sogno è spesso interrotto da catastrofi che ne deviano il corso. L’arte di immaginare consiste nel coltivare sogni abbastanza robusti da sopravvivere al trauma del reale. Che significa immaginare dopo Auschwitz, dopo Srebrenica, dopo Gaza…?
Una generazione intera sembra stretta tra questi due poli: da una parte il disincanto radicale, dall’altra l’illusione di mondi perfetti. Ma forse la via d’uscita sta altrove, nello spazio in cui le visioni si intrecciano con la concretezza delle crisi. Non si tratta di fuggire dal mondo, ma di abitarlo con radicalità.
Il futuro, allora, non è un calendario da riempire, ma un enigma che chiede linguaggi nuovi, allenamento dell’immaginazione, coraggio di rischiare visioni. C’è una generazione che non vuole più scegliere tra cinismo e utopia. E, in fondo, la domanda resta sempre la stessa, la più antica e la più necessaria: e se fosse diverso?